martedì 20 luglio 2010

La macchina del fango di Saviano


Capitando a ridosso del ddl sulle intercettazioni, lo “scandalo P3” sembra accreditarne il fondamento. Ironia del giornalismo, è proprio “la Repubblica” a offrire la chiave di legittimazione. Lo fa mercé la sua firma di punta, Roberto Saviano, che nell’articolo del 17 luglio rivela quali sono state le strategie per inchiodare Caldoro.
E che, nella sua vocazione espansa di scrittore impegnato, porta argomenti a favore dell’ideale di una letteratura vittoriniana, capace cioè di traslocare ragioni dal quadrante della società a quello della cultura. Vittorini fu il Sartre italiano che immaginò engagé non l’intellettuale ma la sua opera e che non esitò a mettersi contro il suo partito pur di non piegare la letteratura alle pretese della politica. Una voce come quella di Saviano è necessaria perché la letteratura testimoniale, sia pure nei modi propri della docu-fiction, abbia una sua presenza nella realtà politica.
Saviano spiega che la “cricca”, volendo cucire addosso al designato presidente della Campania un’accusa di associazione mafiosa, e sapendo bene che non conta nulla cercare le prove per denunciarlo, si preoccupa soprattutto di trovare giornali e siti web disposti a pubblicare notizie che pur non essendo vere possano sembrare tali in presenza di un dossier preparato a regola di calunnia.
La ricetta di Saviano è questa: “Prendi un vecchio pentito fuori dai giochi e gli fai sparare qualche accusa, il tempo di finire sui giornali: poi magari i pm dimostrano che è falsa, ma intanto il fango ti è arrivato”. Non importa dunque che sia aperta un’inchiesta giudiziaria su Caldoro ma che i giornali pubblichino insinuazioni sul suo conto. Se ne ricava che “la macchina del fango”, come la chiama Saviano, si può mettere in moto solo in quanto esiste una stampa, compiacente o collusa, che può farle da sponda. Nessun dossier sarebbe infatti mai nato se fosse mancata la possibilità di renderlo pubblico.
La tecnica impiegata è stata sopraffina ed è lo stesso Saviano a rivelarla: si prepara un dossier su presunte frequentazioni omosessuali della vittima, si compulsa un sito perché mostri sdegno nel momento in cui dà notizia del dossier e, aspettando che i giornali riprendano le indiscrezioni, si profondono pubblicamente attestati di solidarietà misti a dichiarazioni di condanna.
Ebbene, tutto ciò non sarebbe possibile se una legge vietasse di rendere pubbliche notizie di reato (oltretutto false in questo caso) prima del pronunciamento del Gip e di usare i giornali come muri sui quali infamare chiunque con lo spray.
“La Repubblica”, dando enorme spazio al caso, sta dimostrando come sia sacrosanta una normativa che impedisca ai giornali di rendersi strumento, in buona fede o in combutta, di scellerate manovre piduiste e di complotti politici. Il giorno dopo l’articolo di Saviano, Adriano Prosperi ha ripreso la stessa tesi finendo per dire cosa del tutto contraria: secondo lui la legge anti-intercettazioni trasformerebbe l’informazione in un canale di falsi dossier. Ma come?
Piuttosto: la legge sulle intercettazioni è necessaria quanto alla violazione che la stampa fa ogni giorno della privacy e alla libertà di cui gode di mettere chiunque alla gogna distruggendone il bene maggiore, la reputazione; non occorre invece quanto all’azione giudiziaria perché la magistratura ha ottenuto formidabili risultati con lo strumento dell’intercettazione. Tra due beni di uguale importanza sociale, la riservatezza e la facoltà inquisitoria, questo governo ha scelto di tutelare il primo penalizzando però il secondo. Basterebbe separare le due sfere e mettere il bavaglio a quella stampa che, come oggi “la Repubblica”, si erge a detentrice di un potere che non dà notizie ma le fa. In una società dove si teme più il giornalista che il giudice, la libertà di espressione diventa licenza. Una licenza che può consentire torbide manovre del tipo di quelle allestite dalla “macchina del fango” di cui Saviano ci ha spiegato benissimo i meccanismi.