Quando si pensa al giornalismo è naturale abbinare ad esso la letteratura, trattandosi di attività che richiedono entrambe l’esercizio della scrittura. Il binomio equivale, nell’immaginario comune, a quello architetto-ingegnere o monaco-sacerdote o attore di cinema-attore di teatro.
Ma credo che la differenza che passi tra un giornalista e uno scrittore sia ancora più profonda di quella che corre tra le altre figure che hanno equipollenti corrispettivi e che io da fuori tendo a ritenere assimilabili. A fissare questa differenza ci sono arrivato osservando le mie abitudini di lettore e la mia condotta di giornalista. Lo so che l’io è increscioso per dirla con Pascal, e che parlare di se stessi equivale il più delle volte a sparlare o straparlare, ma la mia non è una citazione, quanto una testimonianza resa non certo da letterato ma appunto da lettore.
Ma credo che la differenza che passi tra un giornalista e uno scrittore sia ancora più profonda di quella che corre tra le altre figure che hanno equipollenti corrispettivi e che io da fuori tendo a ritenere assimilabili. A fissare questa differenza ci sono arrivato osservando le mie abitudini di lettore e la mia condotta di giornalista. Lo so che l’io è increscioso per dirla con Pascal, e che parlare di se stessi equivale il più delle volte a sparlare o straparlare, ma la mia non è una citazione, quanto una testimonianza resa non certo da letterato ma appunto da lettore.
Perché se leggo un articolo di giornale appena di ieri lo trovo superato mentre leggo con entusiasmo un libro di dieci secoli fa? Perchè i giornali si buttano e i libri si conservano? Perché di uno stesso autore leggiamo con piacere un libro e con occhi diversi invece un articolo di stampa? E perché si riconoscono con grande facilità il lettore di giornali e il lettore di libri? Si può nascondere l’età che si ha ma non la lettura che si fa.
Io non credo che il perché a tutte queste domande sia da ricercare nella scarsa fiducia che la stampa gode, quanto nel piano di differenze sul quale giornalismo e letteratura operano rispondendo ad aspettative diverse, sia pure in qualche modo complementari.
Non leggiamo un articolo del giornale di ieri per un motivo: perché lo giudichiamo superato dai fatti, non lo riteniamo cioè attuale, e prendiamo dalla nostra libreria Omero perché lo riteniamo invece attuale. Non è una contraddizione? Non lo è. Come non è contraddittorio, per le stesse ragioni, che si leggano libri di Paesi stranieri anche lontani dal nostro mentre non siamo interessati a leggere giornali di un paese straniero, anche quando fossero tradotti nella nostra lingua.
Sia sul piano del tempo che in quello dello spazio letteratura e giornalismo seguono direttrici diverse. Entrambi raccontano fatti. Ma la realtà riferita dal giornale ci suona effimera, precaria, suscettibile di modifiche, mentre la realtà riferita pur’anche da Omero o Virgilio ci appare immutabile, storicizzata, insemprata. Sappiamo chi è Anna Karenina e nessuno può dire di lei cose diversa da un altro. E’ immodificabile. E’ reale perché non è suscettibile a interpretazioni soggettive. Di lei in altre parole sappiamo tutto e non possiamo aspettarci movità. Mentre di papa Benedetto XVI, l’uomo più celebre della terra e del quale pretendiamo di sapere ogni cosa della sua vita, non sappiamo in realtà niente dal momento che anche ciò che sappiamo è soggetto a revisione, ad aggiornamento o ad aggiunte di nuovi dettagli: appunto perché si tratta di una realtà modificabile. Questa, come si sa, è una teoria di Umberto Eco.
Allora, se le cose stanno così, qual è la conseguenza? Che la vera realtà è quella letteraria, cioè quella che appartiene all’invenzione, mentre la realtà vera, che chiamiamo attualità, è transeunte e quindi irreale, inesistente. Sembra un assurdo ma vale anche qui la teoria che Croce applica all’arte: la quale è l’unica realtà fisica mentre la realtà fisica non è tale perché la materia fa parte, a detta degli stessi scienziati, dell’inconoscibile ed è soggetta a falsificazione. Anzi, a stare a Popper, tanto più una teoria scientifica è fondata quanto più può essere falsificata.
Se la realtà vera è quella inventata, allora è la letteratura a rendersi presente, a farsi viva, a raccontare un ieri che diventa un oggi che non cambia, come cambia invece l’ieri che diventa oggi nei giornali.
Facciamo un esempio. La Seconda guerra mondiale può essere raccontata o ricostruendone le vere vicende o raccontandone le vicende verosimili. Nel primo caso abbiamo le figure storiche, nel secondo i personaggi inventati. Ebbene, cosa rimane nella nostra memoria e nella nostra coscienza: il racconto o il resoconto? Restano oggi e per sempre il partigiano Johnny di Fenoglio e il ragazzo Pin di Calvino, perché non cambiano mai, mentre cambiano eccome le interpretazioni storiche degli eventi, secondo le ideologie, i resoconti storici e quindi secondo gli interpreti. Sono tante le interpretazioni storiche quanti sono gli storici, mentre di Anna Frank non ci sono né ci potranno mai essere doppi.
Prendiamo il caso in cui manchino documenti storici in presenza di fatti che ci vengono dalla letteratura o dalla religione: la guerra di Troia e la vita di Gesù Cristo. Ancorché le prove certe siano labilissime in entrambi i casi, noi non mettiamo in dubbio nessuno dei due e accettiamo che le cose siano andate esattamente come ci vengono “raccontate”. Se il racconto è la letteratura, né può essere altro, è la letteratura che ci dice la verità quando la storia manchi. Ma anche quando la storia è presente succede che sia la letteratura ad avere la prevalenza e ottenere più credito. Prendiamo i protocolli dei savi di Sion, una leggenda planetaria che la storia ha dimostrato del tutto insussistente già nel momento in cui esercitavano il loro maggiore effetto. Creduti veri, sono diventati oggetto di ricerche letterarie e prodotto conseguenze sul piano politico ed economico del tutto reali. A dimostrazione della forza della letteratura, cioè del racconto.
A ben riflettere, è sempre il racconto a determinare sviluppi reali. Le reazioni seguono a un’azione (per esempio la dichiarazione di guerra frutto di una provocazione) sulla base di una relazione, cioè di un racconto, che può essere un rapporto scritto, un resoconto, un telegiornale. Di conseguenza la reazione dipende non dall’azione ma dal racconto. Facciamo un esempio: Obama replica a Osama bin Laden adottando misure in ragione non di quanto il secondo gli dice direttamente ma di quanto la stampa riferisce. Se, per paradosso, tutta la stampa convenisse di riferire una versione falsa, Obama sarebbe indotto a reagire in forza di essa. Il caso delle armi di distruzione di massa imputate a Saddam hanno scatenato la rabbiosa reazione della Casa Bianca (più o meno coinvolta e partecipe) ancorché si trattasse di una montatura.
Se dunque fatti reali possono essere effetto di presupposti falsi ne consegue che la bugia può diventare verità se riferita come tale. Dunque la letteratura fa premio sulla realtà, perché sono rarissimi - e comunque tutti relativi al rapporto circoscritto di due sole persone, come quando una persona ingiuria un’altra che reagisce aggredendola - i casi in cui una reazione si abbia in assenza di un racconto di una terza parte. Questa terza parte è occupata dalla letteratura. Che è anche una modalità di riferimento: un articolo di giornale, che è antitetico alla letteratura, può trasformarsi in uno strumento di sensibilizzazione e quindi capace di suscitare emozioni e perciò reazioni, se è scritto indulgendo a un certo stile che privilegia l’aggettivazione, l’iperbole, la costruzione semantica suggestiva.
Ci sono molti modi per riferire, cioè per raccontare, un fatto: nessuno però è in realtà asettico. Flaubert per tutta la vita tentò di concepire un romanzo che fosse come scritto da sé, autocreato, impersonale. Ma non ci riuscì. Come non riuscì in un’impresa simile Verga immaginando il verismo quale mezzo per raccontare senza intervenire come autore.
Saramago ha provato a inventare una scrittura che facesse a meno della punteggiatura, vista come inflessione, accento e tono e che rendesse il testo anonimo, nel senso che fosse privo di autore. Ma ottenne il risultato opposto: di vincere il Nobel proprio per il dippiù di espressività che era riuscito a creare rinunciando all’interiezione e affidandosi alla parola nuda. La quale nasce già carica di significato non solo semantico ma anche semiologico: come elemento del discorso e come segno della pronuncia.
Letteratura è sinonimo di invenzionale, è vero. Ma è anche attributo della comunicazione. Non lo ammettiamo, ma è una tecnica nata con l’uomo e che lo accompagna come la sua anima.