Manlio Sgalambro è morto oggi, nella sua casa di Catania, all'età di 90 anni non ancora compiuti. Il suo ultimo libro, uscito da Bompiani a dicembre, si intitola Variazioni e capricci morali, un trattato che lo stesso filosofo dice di aver scritto per riflettere sull'infelicità. Il nichilismo, l'annichilimento, la perenzione e la morte sono stati i suoi temi più frequentati. Quella che segue è un'intervista che ne raccoglie tre rilasciate dal pensatore in occasioni diverse al sottoscritto.
Che rapporti ha con la politica? Non buoni, mi pare.
Le racconto un aneddoto. Agli inizi del 2012 mi sono trovato a tavola con un paio di artisti e alcuni professionisti (avvocati, notai, uomini d’affari) invitati da Franco Battiato a cena dopo un suo spettacolo. Notai che gli artisti sedettero ad un tavolo isolato e che i “tecnici” tennero banco tra loro parlando di affari e di politica. Ad un certo punto non ne ho potuto più. Mi sono alzato e ho detto: “Les artistes avec les artistes” e sono andato a sedere con i due umili convitati di pietra. Battiato rimase dov’era, ma apprezzò.
In Della misantropia l'ultimo capitolo, “De gubernatione”, posto come in cauda venenum, riprende la questione politica per relegarla, con una chiarezza e una perentorietà impresagite, nei riposti della religione e perché lei possa quindi pronunciare in termini privi di ogni indulgenza: «Sono gli esseri dappoco che hanno bisogno della politica, così come un tempo ebbero bisogno della religione».
Io non sono io soltanto perché penso ma anche perché ho. E quello che ho, come patrimonio esclusivo e individuale, sono le mie idee. Che non possono essere minate dalla politica se non con un atto di arbitrio e di sopraffazione.
Quindi, come lei scrive, chi ha le proprie idee non può volere altri governatori se non se stesso; semmai può ammettere solo amministratori.
La politica è per la canaglia, per quanti cioè non sanno regolarsi da sé e hanno bisogno degli altri. Ma il problema più pressante è quello di stabilire cosa appartiene alla politica e cosa resta invece all’individuo, soprattutto all’individuo che pensa. Quando il suo pensiero entra nel circolo della politica viene assorbito oppure rimane immune, secondo se l’individuo che fa filosofia è uscito o è rimasto nella parentesi che si è dato e dentro la quale la politica non può raggiungerlo.
Negando la politica come mezzo di governo lei non risulta alla fine anarchico?
Non anarchico. Diciamo meglio astenuto.
Ma da quanto tempo non va a votare?
Eh, da decenni ormai. Non vado alle urne, ma esprimo lo stesso il mio voto: a casa mia; ed è un voto di coscienza.
Un giudizio, più esattamente.
Sono un osservatore estraneo. E come un notaio non vado a impadronirmi dell’oggetto di cui sto redigendo l’atto. Porto il mantello a ruota e fo il notaio, per dirla con Achille Togliani.
Comunque sia, non ammette il concetto stesso di governo.
Governatemi, se volete, ma non elevate questo atto a concetto e soprattutto a “mirabile concetto”. Fate di me quello che volete, senza però concettualizzare, in una legge, in una norma logica o di pensiero, altrimenti trasformate un atto dello spirito in un factum brutum.
Questo vale anche per Battiato, che oggi fa parte di un governo?
Battiato dice che non ha chiesto di far parte del governo ma che gli è stato chiesto di farne parte. Potrebbe sembrare una sofisma, ma sa, i sofismi per noi che siamo stati greci sono professione di verità.
Se fosse toccato a lei, avrebbe detto sì?
Io non c’entro niente con queste cose.
Come agens no, ma come spectator senz’altro. La sua condanna della politica è senza appello. E mostra di conoscerla anche nella sua sostanza.
Non crede che la politica stia subendo, o è per subire, la stessa sorte delle grandi aggreganti come la teologia e la filosofia? Non crede che alla morte della religione stia seguendo quella della politica?
Non saprei. Certo, lei avverte che però non è ancora arrivato il momento.
Non è arrivato, è vero, ma ne vediamo la morte in prospettiva. La politica si sta aggrovigliando, lancia dogmi, promuove concili piccoli e buffi dove si riuniscono politici che gridano… Sembra di assistere a quelle sedute conciliari in cui i vescovi di più alto grado si azzuffavano in nome di questa o quella teoria astrusa, il realismo contro il nominalismo, come fu nella Bologna del tredicesimo secolo. E com’è per i partiti oggi.
Se la politica finisse, come lei dice è avvenuto per la religione, cosa verrebbe dopo?
Bisognerebbe cominciare a pensarci, ma lo facciano quanti hanno un avvenire, io non ce l’ho. Così com’è attuata, in Europa è all’ultimo stadio prima del regresso a nuove barbarie. Quel che vedo sono accenni autoritari (non negli effetti ma nelle premesse) mentre sento fare ragionamenti che non possono che portare a nuove forme di dittatura, dalle quali c’è solo da aspettarsi che siano intelligenti e razionali. Credo che la politica, così come è nata in Grecia e si è sviluppata in Europa, stia subendo un processo di autocombustione e che per rinascere dovrà prima morire. Gli Stati non possono continuare a dirigersi con simili apparati di vocianti, di patteggiatori, di mestatori. Non è possibile che duri.
Resta la filosofia, se per lei non fosse anch’essa morta. I filosofi “custodi” di Platone non potrebbero sostituire i politici?
Arrivati al governo, anche i filosofi sarebbero dei politici. Ma dove sono dopotutto oggi i filosofi? Sono scomparsi. Forse si sono fatti conventuali e per questo non li vediamo.
Magari sono misantropi come lei, che è filosofo.
La misontropia è oggi obbligatoria, è un atto rituale, è l’infelicità assoluta. E si accompagna, come diceva Platone, alla misologia, l’avversione contro i ragionamenti.
Tolta la religione, tolta la filosofia, tolta pure la politica, non resta che l’arte. Secondo lei l’arte può mettersi al servizio della politica?
No, questo non lo crederei mai. Ricordo che quando lessi al Vittoriano Laus vitae di D’Annunzio mi resi conto che tutto lo sporco che poteva esserci attorno cadeva man mano che leggevo, come se lo innaffiassi con la parola. Pulendo, rimaneva la meravigliosa opera di un poeta che pure, politicamente, era colluso con il regime fascista. L’arte prevale di gran lunga sulla politica.
In Della misantropia lei infatti postula che anche il saggista debba valersi dell’invenzione letteraria e dunque che anche il filosofo è un artista. Solo così si può fermare il disfacimento attuale.
Nella Teoria della Sicilia concludevo con queste parole: “Solo nel momento felice dell’arte quest’isola è vera”. Sarà dunque la bellezza a salvarci.
E cos’altro è?
Per me la Sicilia è un punto luminoso. Nel senso di luogo, è il punto dove sto, perché oltre a un “io sono” c’è anche un “io abito”. E io abito in Sicilia.
Ma un filosofo può pensare ovunque o è influenzato dall’abitare in un determinato luogo?
Si può pensare in un bar, in un bordello, dove capita. Per parte mia ho però ricevuto tanti influssi dalla Sicilia da aver condizionato il mio sistema di concetti, a cominciare dalla precarietà per finire al nichilismo. Ho sempre visto peritura la Sicilia, come se potesse sparire da un momento all’altro. È già successo del resto all’isola Ferdinandea. È nel destino delle isole. Ogni isola attende di inabissarsi. Per questo i polinesiani costruiscono con le loro piroghe tanti ponti fatti di barche: per creare una terraferma. Ecco, noi siciliani non abbiamo il concetto di terraferma.
Sciascia diceva che i siciliani non vogliono progredire perché non credono nelle idee, quindi nei concetti.
Beh, io sono però un siciliano che crede nei concetti. Quanto al progresso, è vero: i siciliani ci chiediamo sempre cos’è. Io me lo chiedevo già da ragazzino quando scrivevo sull’irrazionalità del progresso in un momento in cui il concetto invalente di razionalità era considerato un viatico di progresso; e mi chiedevo perché il progresso fosse un fattore del post e non dell’ante. Se scoprono il rimedio contro il cancro, pensavo, se ne avvantaggiano quelli che vengono dopo. Ma quelli che sono rimasti fuori hanno la stessa idea di progresso? Ero già allora molto scettico circa il progresso, un concetto che vedevo pieno di contrasti e antinomie.
Platone, venendo a Siracusa, propose che il potere fosse consegnato ai filosofi. Non è che sia stato ascoltato. In Italia abbiamo avuto qualche filosofo divenuto sindaco, qualche altro parlamentare, ma nulla di più.
Per quanto mi riguarda, sono un filosofo anti-politico. Ho scritto Dell’indifferenza in materia di società sostenendo che non volevo essere governato. Perché mai dovrei esserlo?
Nasconde uno spirito anarchico?
Forse nel senso dell’anarca jungheriano, di ribelle passivo e asociale. Vede, io esamino concetti. Scrivo libri e li pubblico, ma dentro sono come il ghiaccio, un eremita, uno che non dice ma tace. Questo tipo di contemplazione ha la lucidità di una morte che rilancia, come il giocatore, al tavolo della vita.
In Della consolazione lei scriveva che per consolare bisogna essere indifferenti come lo è una capra. Quindi si è sempre rivolto al mondo occidentale da una posizione di distacco, non parlando mai ai cittadini di un paese e men che meno ai siciliani.
Ho parlato all’Occidente, è vero. E ho scritto dei concetti di Occidente e Oriente ritenendo che quella che chiamiamo civiltà è solo l’occidentale perché il concetto di Oriente designa un modo di vivere, alla maniera di come vivono i cavalli, le tartarughe, le lumache.
Epperò di questa «civiltà occidentale» alla Oriana Fallaci fa parte la Sicilia. E della Sicilia fa parte la mafia. Lei una volta ha detto che l’unica realtà economica siciliana è la mafia. Ne è ancora convinto?
Sono convinto che si debba approfondire meglio il concetto di mafia. Io sostenevo che quando si dice che la mafia non esiste si esprime un fatto nominalistico in quanto si scarica il concetto di mafia dell’universalità che lo stesso concetto di mafia ha. Non c’è la mafia, ci sono i mafiosi. Che se uno li vede sono dei poveretti, degli uomini senza taglio vero.
Henner Hess, amatissimo da Sciascia, pensava come lei che non esiste la mafia ma solo i mafiosi, i quali però non sanno di essere tali.
Concordo. Mi ricordo a che a una Milanesiana di qualche anno fa intervenni proprio su questo argomento e volli esagerare dicendo che non esiste la mafia ma esiste di essa un concetto ampolloso, una categoria. I giovani mi applaudirono. Gli altri no.
Una «categoria», dice? Non è che pensa ai mafiosi e ai loro codici morali e d’onore perché li riconduce a Kant, il suo filosofo preferito?
Sa che non ci avevo mai pensato? Credo che abbia ragione. A ben vedere, il concetto di onore non deriva da una condizione positiva ma potenziale. L’imperativo kantiano implica il fatto che devi ubbidire a un codice d’onore, a un imperativo categorico. Ci voglio riflettere meglio. E forse ci scriverò sopra.
Scusi, ma davvero guarda con favore ai mafiosi?
Quando a Catania si ebbe, anni fa, la questione Rendo a me dispiacque che il concetto di mafia fosse diventato un concetto moralistico per cui biasimai Claudio Fava che, lottando moralisticamente, era riuscito ad abbattere non la mafia quanto un prodotto eccellente della mafia, l’impero industriale che dava lavoro e che poteva ampliare ancora la sua esistenza. Oggi quell’impero non c’è più. Questo è un fatto.
Dunque la mafia è un bene necessario perché favorirebbe l’economia?
Vi sono dei concetti necessari perché sono reali. Non si può maneggiare la realtà nella logica di un «dover essere» o di un «non ci deve essere». Sono abituato a vedere le cose che ci sono. La mafia c’è? E allora devo tenerla in conto e devo capirla.
In Nell’anno della pecora di ferro, la raccolta di poesie, lei disegna un quadro di progressivo imbarbarimento. A che punto è giunto questo processo di entropia?
Tutto mi sembra che si sia solidificato. Nel decadimento il regresso è anche movimento, sia pure all’indietro, ma oggi mi pare che non ci sia nemmeno questo e che ogni cosa si sia fermata.
In Marcisce anche il pensiero, altra plaquette poetica uscita l’anno scorso, lei sembra intonare il de profundis alla filosofia: nell’ultima mezz’ora di vita di Kant, ridotto a una larva, lei vede la putrefazione anche del pensiero.
Oggi si parla di ritorno della filosofia solo perché si sta ripubblicando Vattimo o si celebrano i sessant’anni della rivista “Aut Aut”. A me pare che si tratti del guizzo della fiammella di una candela prima che si spenga, quando in un baleno dà una luce molto intensa.
Lei è innanzitutto un pensatore, ma frequenta altre discipline, il teatro, la musica, la canzone, il videoclip… Non si ritiene l’ultimo dei postmoderni nel senso della mescidazione dei generi?
Conosco poco questa etichetta. Ho fatto tutte queste cose, fra cui anche un disco, non perché fossi postmoderno ma perché sono capitate. Per serendipità. Tutto nella mia vita è venuto per caso. Le mie origini sono abbastanza curiose. Avevo uno zio a Lentini al quale ero molto legato da bambino. Miope come me, andavamo al cinema sedendo in uno dei bracci laterali perché erano più vicini allo schermo. Una volta gli chiesi cosa pensasse del fascismo e lui mi rispose tutto ispirato: «Eh, mio caro: il mistero dell’essere…». Ma come, gli chiedevo del fascismo e mi rispondeva “Il mistero dell’essere”? Stregato da quelle parole enigmatiche mi avvicinai alla sua biblioteca e trovai un libro di Ardigò, La formazione naturale nel fatto del sistema solare, il primo libro di filosofia che ho letto. Mi parve un’opera limpida, musicale, impeccabile.
Fu dunque attratto dallo stile più che dal concetto.
Da entrambi. Mi colpì la teoria della consequenzialità tra casualità e necessità. È casuale che una tegola cada nel momento in cui per caso passo nella strada. Due casualità, il cui insieme però, spiegava Ardigò, è necessario. Avevo quindici anni e mi si aprì un universo di pensiero che continuo a 87 anni ancora ad esplorare.
Il problema oggi è costituito proprio dalla lettura, che diventa innocua in proporzione alla quantità di libri che si pubblicano secondo un rapporto inverso per cui l’atto di leggere perde aura più crescono i volumi; i quali di converso si stampano più aumentano i lettori. Come si esce dal circolo vizioso?
L’ordine del mondo ci uccide. Ed è il mondo il nemico del genere umano. Come tale è l’ente pessimo, il pessimum, un prodotto dell’imago mundi. È questo l’ultimo risultato della sua concezione pessimistica dell’uomo?
Come i morsi della fame non costituiscono socialismo, così i morsi della sofferenza non costituiscono pessimismo. Il pessimismo, quello radicale, affonda nella questione tra parte e tutto, per usare una terminologia classica.
Hegel ebbe a dire che la verità è tutto. Io aggiungo: sì, la verità è tutto, ma contro le parti. Voglio dire che questo senso di inimicizia - chiamiamolo così - non possiamo assumerlo come un concetto frigido, ma vogliamo che passi attraverso passioni ed emozioni senza tuttavia cancellarne le tracce principali. Mi spiego meglio: quando uso una terminologia di questo genere, concetto più emozioni, non penso a una giustapposizione ma ad una interazione reciproca cosicché l’emozione concettuale origina l’inimicizia nei confronti del mondo. Perché noi non possiamo avere il diritto di condannare questa entità metafisica che abbiamo a portata di mano, l’unica entità metafisica che entra nella nostra esperienza.
Lei assume il mondo appunto come un ens metaphisicus e dice che è dolore. Se è così, fa suo quello che Platone chiama il creiton e non l’dea aristotelica del Meglio. Di qui il dolore del mondo.
Dobbiamo distinguere tra dolore e pessimum, in quanto il dolore riporta il tutto alla nostra misera antropologia mentre il rapporto tra parti e tutto ci consegna a un pessimum generale, cioè il mondo, questa entità metafisica che raccoglie tutto ma che consta di parti necessarie alla sua stessa costituzione.
La “cattiveria” del mondo è una concezione schopenhauriana. E Schopenhauer lei se lo trova a fianco nella battaglia contro i professori di filosofia a favore del genio filosofico, nella lotta tra saputo e sapere.
Indubbiamente. Perché la filosofia si annida e si disperde nell’università dove per forza di cose il famoso “professore” non ha che per modello l’istituzione; e dovendo rispettare i termini dell’istituzione e avendo una propria verità da insegnare agisce per presupposizioni. Ma il vero filosofo, insegna Cartesio, non deve presupporre nulla, ma dubitare di tutto. Questo non significa mettersi a tavolino e decidere ma avere proprie asserzioni filosofiche come fossero un’arma letale. Vuol dire che il pensiero è qualcosa che il civis non accetta se prima non si tramuta in una evidenza.
Ma l’evidenza, lei dice, è la disgrazia più nera che possa capitare a un filosofo, perché è il confine della filosofia. Davanti all’evidenza il filosofo deve arrendersi.
Certo. L’evidenza è qualcosa che si presenta con caratteristiche tali che non possono essere disertate. Le si deve dare ascolto, perché è la prova conclusiva, cioè il rifiuto degli altri. Io ti do questo, uno dice, non riconosco limiti, ma se tu dici di sì colpiscimi, dimostramelo, ma non devi impedirmi, tu filosofia, di fare questo passo. Puoi soltanto, dopo che sia varcato uno dei limiti, dire “stai sbagliando, non sei filosofo”: Ma questo può dirglielo dopo.
Dunque bisogna pensare filosoficamente e non vivere filosoficamente.
Questo lo dico perché la filosofia oggi non è più vivibile. Chi si presentasse come tale farebbe ridere. Oggi la filosofia ha un solo tramite attraverso cui può attuarsi e si possa dunque dire che quel tale pensa e qual è il pensare stesso.
Torniamo al pessimum del mondo. Per non essere in continua avversione con esso l’uomo dovrebbe esercitare il diritto ontologico alla vita illimitata mentre trova interesse nelle religioni, nelle filosofie e nelle politiche, che assumono una funzione consolatoria.
Io non ritengo che la pratica sia un momento conclusivo e il più alto del filosofare ma il più basso, che si ha quando il filosofare - avendo disperso ciò che intende guadagnare - si arrocca davanti alla prassi. La pratica è dunque una degenerazione del filosofare. È come il lettino di Freud, che fa bene a indicare un’infermità nervosa come annidata nel nocciolo delle cose, ma fa male quando questa infermità diventa risparmio della cura, quando lui trascina l’uomo nel suo lettino per levargliela. Bisogna invece consegnarla al suo male, ecco il punto, così come noi dobbiamo essere consegnati al mondo. L’uomo comune, l’altro, il civis, può agire come vuole e sostituire il pensare. E’ coerente. E’ incoerente invece il filosofo o colui che pensa quando ritiene di sostituire il pensare con l’agire.
Bisogna dunque essere “consegnati” al mondo. Heidegger diceva che bisogna essere “gettati” nel mondo. Ma lei prende un’altra strada quando sostituisce il mondo con il sistema solare e specifica che occorre essere contemporanei della fine del mondo.
Il senso è che, superando la solita pratica politica, dove si crea un’altra illusione, occorre sostituire l’illusione religiosa che offre l’offa con cui contentare i miseri, con questa condizione che è propria del filosofo, mentre il civis fa la sua parte nel mondo.
Perché essere contemporanei della fine del mondo significa anche essere comunisti in termini di avvento?
Comunisti sì, ma nella speciale accezione dei miserabili che si muovono contro il pensare, perché per loro la risposta fondamentale non è la contemplazione ma il soddisfacimento dei bisogni, che si possono esperire in altro modo, semplicemente cercando di non averne.
Il “suo” sistema solare non si identifica però né con la natura né con il mondo.
La natura si identifica con la vita, mentre il sistema solare lo percepiamo non come parte della vita perché non ha la sua infezione.
Perché la morte del sistema solare è il grande fatto etico della nostra epoca mentre noi mettiamo al suo posto la Crocifissione o il Concilio di Nicea?
Noi riteniamo di riferirci a un dio collocato in illo tempore per derivarne atti che abbiano legittimità. Cosa fa infatti l’uomo religioso? In ultima istanza non si riferisce all’altro se non per la mediazione del dio. Il suo atto è etico perché tale è agli occhi di Dio. Da dove acquisisce invece eticità l’atto per noi? Dalla fine del sistema solare di cui siamo contemporanei perché lo anticipiamo nella scienza, la quale ci dice che entro un determinato tempo il sistema solare andrà in entropia per colpa di una degradazione dell’energia: è la seconda legge della termodinamica, la più metafisica delle leggi fisiche, come dice Bergson. Finirà il sistema solare e con esso il mondo. Di fronte a questo può darsi che il filosofo si pieghi in ginocchio davanti all’altro, riconoscendo l’altro come suo simile nella morte, e non più come vivente, parola che detesto e alla quale sostituisco “morente”.
Però lei dice che bisogna non abituarsi a morire e considerare la morte una forma di distruzione come avviene in natura.
Certo, perché l’abitudine alla morte fa mancare questo senso della distruzione complessiva. Noi siamo i morenti perché non conteniamo la morte, la quale ci viene dall’esterno, è l’immane distruzione che colpisce Babilonia come colpisce una galassia o un individuo.
Per eserciatre dunque il diritto ontologico alla vita illimitata il rimedio è non abituarsi a morire?
Non abituarsi a morire per non legittimare la morte, per lasciarla nella sua qualità di fattore esterno, diversamente da quanto sostengono i filosofi contemporanei per i quali l’uomo è un essere per la morte secondo una visione heideggeriana che ha permeato tutta la filosofia successiva.
E’ in questa chiave che il pessimismo deve diventare sentimento comune, tale da dovere essere insegnato pure a scuola?
Vorrei capire perché si può insegnare ai ragazzi che un ometto bruttissimo viene lasciato crocifisso come esempio e modello valido da duemila anni e non si possa insegnare la visione nostra: di esseri stritolati da un ente esterno per trarne non già una semplice evidenza ma il nostro onore di uomini che sanno la verità e non si rifugiano nel Meglio religioso o politico.
Ma la verità non è per lei il “contro”’ che è il limite massimo, la prova che la verità non è mai assoluta: si ferma quando urta contro il “contro”? Da cui la teoria che il pessimismo è la coscienza del nostro tempo, quindi del “contro”.
C’è una verità che è anche la esteriorità delle cose, ma non nel senso agostiniano dell’uomo interiore. La verità è qualcosa che ci cade addosso come una pietra. Tutte le forme dell’esterno nella loro violenza creano questa sensazione. Ecco il “contro”.
Perché parla di avvento, nel senso che il futuro è il presente, mentre noi concepiamo il presente in funzione del passato, come memoria dell’Origine, rifacendoci quindi a Dio?
Il futuro è la stessa contemporaneità: è nell’atto con cui l’uomo religioso si rivolge a Dio per chiedergli qualcosa nella preghiera che si ha una contemporaneità. Per me la contemporaneità si sposta: è l’atto che deve avvenire, ma deve avvenire è uguale a dire che è già avvenuto, perché è l’anticipazione di ciò che avverrà. Noi abbiamo a che fare non con Dio ma con un atto veramente distruttivo. Noi, dice Seneca, siamo consolati dal fatto che possiamo partecipare alla distruzione universale. Mi consolo pensando che quando muoio io muore tutto. E ciò può avvenire se ti trasporti con il tuo pensare nell’anticipazione della fine del sistema solare.
Alla fine De mundo pessimo non fa che raffermare la sua vocazione di ateo in una continua annihilatio dei.
Per la verità io continuo a essere un empio.
Per la verità io continuo a essere un empio.