uscito su La Repubblica il 7 marzo 2014
Il primo libro che Manlio Sgalambro lesse, a quindici anni, fu La formazione naturale nel fatto del sistema solare di Robertò Ardigò. Lo trovò nella grande biblioteca dello zio paterno cui era legatissimo: anche perché era miope come lui, sebbene questo non scoraggiasse nessuno dei due ad andare insieme al cinema, d’accordo anche a sedere in uno dei due bracci laterali che erano più vicini allo schermo. Fu proprio al cinema che Manlio ebbe il suo incontro con l’angelo della filosofia.
Lentini era, anche negli anni Trenta, un paesone di antifascisti dove i ghirigori lessicali lasciati da Gorgia in foggia di sofismi (che molto tempo dopo Sgalambro definirà “professione di verità”) tornavano preziosi per combattere il duce: cosicché, quando davanti alle ribalte tonitruanti del cinegiornale, fu richiesto dal nipote Manlio di spiegargli cosa fosse il fascismo, lo zio disse ispirato una frase, “Il mistero dell’essere”, che produsse l’istantaneo effetto nel giovane imberbe di sperare che il film finisse subito per correre in biblioteca, nella casa piena di libri di Via Regina Margherita, la casa degli Sgalambro, e cercare di capire.
Di quel libro dal titolo impossibile e dal contenuto inavvicinabile Sgalambro dirà ultraottuagenario di averlo trovato “un’opera limpida, musicale, impeccabile”. Insomma, ancorché rivelerà che tutto nella sua vita fosse avvenuto per caso, sarà per volontà del destino che Manlio diventerà un filosofo nichilista e naturalista, esploratore degli abissi dell’universo a specchio dei recessi umani. Ma a farlo un misantropo dal carattere schivo e scostante non sarà la filosofia quanto la vita. Lo zio tanto amato e munifico è il “patriarca” di una famiglia liberale di poprietari terrieri che coltiva senza molte riserve ideali socialisti. Ad amarlo, all’epoca della conquista delle terre, sono anche i braccianti e i contadini che ad ogni ogni funerale usano, passando sotto la casa di un nobile, insultarlo con alti urli e pugni al cielo per imputargli pure la morte di tifo. Quando però muore “il patriarca” non c’è un solo lavoratore lentinese che apre bocca.
Ma la morte del capofamiglia inaugura una stagione di liti e divisioni in casa Sgalambro. Per ragioni mai accertate, a Manlio, un giovane burbero cui Lentini sta stretta e che ama giocare a poker, non tocca più di una povera casetta di due stanze dove per campare imprende a dare lezioni private di filosofia. Sarà per decenni il suo unico e vero mestiere fino a quando non si farà un nome in campo internazionale e conoscerà Franco Battiato che rimarrà stregato dal suo cervello.
Un altro tipo ostico è a quel tempo Sebastiano Addamo, anche lui di Lentini. Non possono non diventare amici. Al punto che quando Addamo, che insegna al liceo classico nel tempo in cui preside è il superletterato catanese Arturo Mannino, dovendo mancare tre mesi per prepararsi al concorso di preside, indica proprio il giovane Manlio come sostituto. Ma c’è un problema: Manlio non è laureato, né lo sarà mai, ma è tale l’insistenza che Addamo esercita su Mannino che alla fine Sgalambro diventa per tre mesi “professore”, come sarà poi sempre chiamato. Un’amicizia, quella tra Sgalambro e Addamo, destinata però a finire malamente.
Succede quando Addamo si trasferisce a Catania dove già si è stabilito l’amico. Addamo dà una festa in casa e agli ospiti, fra cui il caro Manlio, offre focacce tipiche di Lentini, chiamate “cudduruni”. Sgalambro esprime la sua opinione, naturalmente a voce alta: una trovata paesana, volgare e pacchiana, altro che omaggio al borgo natìo. Addamo se la prende sul serio e l’amicizia si rompe.
Finisce anche il matrimonio e il filosofo Manlio si chiude in un progressivo isolamento sempre più esacerbato e risentito finendo per vivere in un casa del centro storico di Catania, assistito a distanza dai suoi quattro figli, accudito da una badante a tempo e protetto dai suoi libri che attorniano una poltrona rossa rigorosamente posizionata di fronte a un balcone che dà su una piazza brulicante di vita. Unica amicizia diventa quella con Battiato che lo trasforma prima in un autore di testi e poi in un cantautore. Nasce un sodalizio di marca etnea che è il solo a durare nella vita del filosofo dell’annichilimento, arrivato persino a giustificare la mafia per averne compreso l’essenza kantiana.
Col tempo torna sempre meno a Lentini dove il nome degli Sgalambro si fa intanto valere grazie al cugino Alfio, il figlio del grande zio buonanima, un avvocato appassionato di archeologia che guadagna consenso popolare e si impegna anche in politica: quella politica che Manlio avverserà invece per tutta la vita e che dichiarerà alla fine morta insieme con la filosofia e la teologia.
Ma anche la Sicilia è destinata per Sgalambro alla morte, essendo un’isola e come tale “impaziente di inabissarsi”. Per lui - in una delle più belle definizioni mai sentite - “la Sicilia esiste solo come fenomeno estetico. Solo nel momento felice dell’arte quest’isola è vera”. L’ultimo libro che pubblica, Variazioni e capricci morali, è infatti che un trattato sull’infelicità. O forse un certificato di morte della Sicilia in assenza di bellezza.