sabato 8 marzo 2014

La merenda di Renzi a Siracusa


Mercoledì scorso, alla scuola Raiti di Siracusa, Renzi ha tenuto ai bambini delle elementari schierati in rassegna, o in coro, davanti a lui e alle altre personalità cittadine una lezione che dovranno ricordare bene, secondo il proposito della preside e degli insegnanti che li hanno addestrati con scrupolo per magnificare il premier: le autorità, quanto sono più elevate, tanto più devono essere eccellenziate.
Fino al ridicolo di una canzoncina insulsa, ritmata su un popolare motivetto inglese, farcita di espressioni melense e intonata da un compreso maestro preoccupato delle stecchette.
La lezione è semplice e i bambini devono averla imparata senza fatica: quando un’autorità soprattutto politica e di alto grado ci onora e lusinga della sua presenza la nostra risposta deve essere un omaggio che sia il più corrivo, prono e deferente: tale che possa sostituire l’inchino e il bacio della mano in uso un tempo. Non essendosi mai esibiti e preparati con tanta premura e cura per altre autorità, che fossero il signor sindaco o il caro onorevole o sua eccellenza il prefetto o sua eminenza il cardinale, i bambini della Raiti hanno capito che per indossare magliettine stampigliate di auguri edificanti, mandare a memoria una canzoncina dalle parole uguali a preghierine, fare le mossettine come le scimmie e vedere i maestri tesi ed elettrizzati, il personaggio in visita doveva essere il più importante di tutti; e che questo personaggio ricopre la carica di presidente del consiglio, equivalente a capo dell’Italia. 

Da mercoledì in poi gli scolari siracusani che hanno visto Raiti sanno quindi che al potere va riconosciuto il massimo dell’ossequio fino alla riverenza assoluta, ancorché smaccata. Ma devono essere rimasti storditi e confusi: perché il capo dell’Italia, più giovane dei loro maestri, si è presentato per nome, Matteo, e ha battuto le mani accompagnando le strofette con un sorriso divertito e partecipe di compiacimento: tutto il contrario di come uno si aspetta debba essere una vera autorità. 

Allora la lezione è un'altra. Se il capo dell’Italia, anziché impalarsi dritto come un monumento, compunto e solenne, si mette a giocare e scherzare, che differenza c’è con mamma e papà? Si tratta forse di autorità uguali, dunque da volere bene allo stesso modo? Nessuno spiegherà ai bambini che l’affetto per i genitori è diverso dal rispetto dovuto a un’autorità e che si tratta di sentimenti da non invertire né uniformare, perché se un capo del governo è voluto bene non è più ai genitori che assomiglia ma al papa, cioè al vicario di Dio sulla terra. Ora divinizzare l’imperatore o il re è pratica che appartiene a secoli in cui ci si prostrava davanti ai troni come se fossero stati altari e si adoravano gli dei per averne benefici e scongiurare castighi. 

Nessuno dirà ai bambini della Raiti che il capo del governo è un cittadino come tutti gli altri (che dovrebbe per esempio avere un lavoro, cosa che l’attuale non ha) il quale, a differenza degli altri, si è offerto per un breve periodo alla cura degli interessi di tutti per farli vivere meglio. Non è un re, né quindi una semidivinità, né tantomeno un santo dal quale attendersi miracoli. Un capo del governo va semmai festeggiato come qualsiasi ospite di qualche riguardo, il provveditore o il parroco, ma non celebrare o acclamare ad maiorem dei gloriam. 
Ma perché Renzi ha avuto una simile cerimonia encomiastica? Gli stessi bambini e i loro insegnanti avrebbero mai pensato a "Clap and Jump" se si fosse trattato di Monti o di Berlusconi? Sicuramente no: il tono severo del primo e l’albagia del secondo avrebbero senz’altro scoraggiato simili impeti nei quali lo stesso Renzi ha voluto invece vedere una benaccetta confidenza. Senonché un leader politico che gira in Smart, si fa fotografare come Fonzie, gioca a pallone, fa le maratone, veste in jeans, Non fa che twittare, trascura la cravatta, ride anche quando non c’è ragione e anziché discorsi pronuncia slogan pubblicitari e trovate spiritose non può che addurre oltranze e sconvenienze. 
Chi cerca il consenso attraverso la simpatia è come quel genitore che si diverte a farsi chiamare per nome, ma poi deve rinunciare a sentirsi dire "papà". Chi, allo stesso modo, va in una scuola e dà il cinque agli scolari in uno spirito di indebito cameratismo non deve avere poi nulla da ridire se riceve pacche sulle spalle: per confidenza o per compiacenza. A volte si tratta di compatimento quando è evidente che il re si ferma con la folla solo per farsi lusingare e amare. Non è un rapporto sano, perché non è facendo merenda insieme che si cresce uguali.