giovedì 22 maggio 2014

Storia di un'apologia di libri


Storia di una ladra di libri, film statunitense ambientato nella Germania nazista e tratto da un libro scritto da un australiano, Markus Zusak (uscito nel 2007 da Frassinelli con il titolo originale, La bambina che salvava i libri, e ripubblicato quest'anno con lo stesso titolo italiano del film: che ha un significato opposto perché una cosa è salvare i libri e un'altra rubarli), non si iscrive tanto nel genere bellico, sottogenere olocausto, quanto in quello simbolico e metaforico e tenta una missione impossibile: elevare il libro, meglio ancora il romanzo, a principio generale e universale di rappresentazione della vita, a simbolo ontologico. 
Ci sono temi quali appunto il libro, l'amore, la morte, la stessa vita, che gravitano attorno a significati ineffabili e sono pertanto inesplicabili. Ogni volta che si tenta infatti di definire cos'è l'amore si finisce sempre per ridimensionarlo o distorcerlo. Così è anche per il romanzo: quando si prova a farne un crisma, un signum individuationis, non si ottiene che di aggiungere un'altra accezione. Nel film di Brian Percival il libro viene assunto a simbolo di salvezza o ancora di salvataggio, come lo vide Gesualdo Bufalino che per ex libris volle il disegno di una mano che spunta da un mare in tempesta e che regge un libro mentre all'orizzonte una nave cola a picco. 
La piccola Liesel si impossessa di libri che trova per terra, tra le fiamme, nella neve o in casa altrui non per salvarli né per rubare beni da rivendere o da tenere per qualche forma di cleptomania ma per servirsene come mezzi per affrontare la vita e quindi per sopravvivere in un mondo in tempesta e in sfacelo: il richiamo è a Sherazade che nelle Mille e una notte racconta al re sempre nuovi racconti per ritardare il momento della messa a morte e dunque per salvarsi. Liesel vuole invece salvare gli altri leggendo loro storie (così al rifugiato Max l'ebreo) o narrandole, come nel bunker durante i bombardamenti. 
Un buon espediente per dare al libro in sé un carattere soterico, che però non va oltre la soglia di percezione di un pubblico adolescente, fermandosi a uno stadio basso di metafora, quello che in fondo Zusak si proponeva intendendo scrivere un racconto per ragazzi: piuttosto stupido, per la verità, come tutti i romanzi che si prefiggono grandi risultati allegorici e che poi colgono soltanto le avvisaglie. Uguale effetto sortisce questo film che, come il libro, fatica enormemente per trovare le parole, i termini, i contesti e gli sfondi necessari a consacrare il libro come bene prezioso, salvifico, irenico e magistrale. Fa ricorso alla parola scritta che nella cultura ebraica designa le tante forme vitali, rievoca la "notte dei cristalli" e i roghi nazisti dei libri, si profonde in sforzi del tutto retorici sulla bellezza della lettura e il valore del libro, ma nel tentativo di raccontare una grande storia, riducendo al massimo la lungaggine un po' stucchevole e tiraticcia del romanzo, il film ne esita una piccola piccola, dove sono gli attori a farla apparire in qualche modo elevata. 
Non è colpa di nessuno. Deve ancora nascere chi riuscirà a rappresentare quale anima mundi il romanzo non come mezzo di difesa né come arma offensiva. Nel primo aspetto Sherazade nobilita il racconto orale come escamotage di sopravvivenza, nel secondo Bradamante dell’Orlando Furioso affronta il mago Atlante, inventore di illusioni, e gli strappa il libro con il quale viene colpita a ogni frase che egli legge, meravigliandosi che il libro possa essere un’arma; ciò che un secolo dopo non succede invece a Calibano che nella Tempesta scespiriana è cosciente di dover togliere al mago Prospero i libri incantati per privarlo di ogni potere. E' poi Ray Bradbury in Fahrenheit 451 a immaginare un reato di lettura punibile con la distruzione nel fuoco del libro letto.
Forse se c'è un film che ha sfiorato l'obiettivo è stato La storia infinita, anch'esso tratto da un romanzo. La lettura di un libro, che si rivela magico, come dev'essere un romanzo, è motivo per creare nuovi mondi immaginari, donde continuare a leggere comporta dare a quei mondi un'evoluzione: senza alcuno scopo di difesa o di offesa, ma solo di viatico alla fantasia.
Storia di una ladra di libri manca questo obiettivo e ripropone, senza convincerci, che il libro è un oggetto o un bene non magico ma utilitaristico, non una funzione della mente ma un servizio in più in dotazione alla persona, un cespite insomma. L'errore più grossolano in cui cade il film è di assegnare alla voce narrante fuori campo, che è della Morte, il ruolo di ordinare gli eventi umani su una scala deterministica, così regolandone inizio, svolgimento e conclusione, facendo apparire realistica quella che nel libro appare come una fiaba, pur se alquanto improbabile. Quando si vuole fare a tutti i costi metaforologia il risultato, il più delle volte, è una deprecabile apologia.