domenica 13 luglio 2014

Vogliamo lasciare tutto al caso?




Nel gioco del calcio ogni volta che la palla viene toccata cambia la partita e cambiano quindi le previsioni sul risultato. Anche la vita è una partita che cambia ad ogni nostro atto. Nel momento in cui compiamo un gesto mettiamo in essere un numero maggiore o minore di possibilità che si determinino mutamenti nella nostra sfera. 
Il calcio è una metafora della vita, una sua rappresentazione su altra scala. Il suo segreto - e la sua bellezza, dovuta più alla tattica che alla tecnica - non è tanto sapere giocare la palla ma sapersi muovere sul campo senza di essa. Il "non possesso" e quindi la disposizione di ogni giocatore in funzione di una previsione di gioco - di qui il merito dell'allenatore che guida lo scacchiere - vale quanto un'azione, perché crea spazi e li chiude influenzandone lo sviluppo, e corrisponde all'atteggiamento di fermo che assumiamo nella vita: sicché anche se stiamo immobili o ci muoviamo in iniziative diversive poniamo comunque le condizioni perché la nostra vita cambi dall'istante successivo. 
Ancorché generalmente si ritenga che tra fare e non fare l'uomo preferisca la prima ipotesi perché solo non facendo non determina alcun cambiamento, a volte l'essere inermi, sia fisicamente che nella vita di relazione, può provocare invece conseguenze ancora più gravi, come nel caso di chi voglia rimanere a casa dopo un terremoto o scelga di non sottoporsi ad accertamenti diagnostici. In realtà non esiste alcuna differenza tra fare e non fare, perché anche non facendo noi facciamo comunque qualcosa dopo aver preso una decisione: appunto quella di non fare. 
La vita dunque cambia ad ogni modo. E moltissime volte contro la nostra volontà e in senso indesiderato. A decidere in un senso o in un altro è l'equivalente del modo come un calciatore tocca il pallone, per cui potremmo pensare che azzeccando la mossa ci assicuriamo un risultato o un effetto positivo. Se questo principio di causa ed effetto avesse davvero un fondamento dovremmo soltanto essere abili e accorti nell'agire, munirci quindi di saggezza e conoscenza. Senonché questo principio deterministico di tipo aristotelico ha mostrato tutta la sua infondatezza rivelandosi un inganno che ha realizzato la teoria dell'esein di Heidegger secondo il quale l'uomo è "gettato nel mondo" come in un'arena o in una tempesta. La scoperta si è avuta proprio nel mondo fisico quando si è studiato meglio l'atomo e si è visto che gli elettroni vorticano e si scontrano attorno al nucleo, creando nuove molecole, non seguendo alcuna legge ma semplicemente a caso. Questo fatto nuovo, sempre supposto, ha sconvolto l'uomo e gli ha rivelato l'insussistenza dell'assoluto.

Einstein, Heisenberg e Gödel hanno introdotto un modello di relativismo cosmico, fisico e logico che ha demolito l’ideale dell’oggettività astratta di Platone e con esso il dogma dell’assolutismo che da Aristotele arriva ai monoteismi. Di più: i tre giganti del pensiero moderno hanno dimostrato che non c’è realtà concreta, dato matematicamente quantificabile, apriori razionale che non sia da sottoporre alla verifica soggettiva e soprattutto al capriccio del caso. 

La teoria di Einstein sulla relatività ristretta, che annulla l’idea di tempo lineare e progressivo legandolo alla concezione di fissità propria dello spazio; il teorema di incompletezza di Gödel, per il quale la coerenza di un sistema formale non può essere dimostrata dentro lo stesso sistema, il che postula - come osserva Enzensberger - l’impossibilità di dimostrare la mancanza di contraddizioni logiche di un sistema dentro lo stesso sistema; e infine il principio di indeterminazione di Heisenberg, che prova come sia impossibile misurare contemporaneamente la velocità e la posizione di un fotone, costituiscono insieme quelle che Rebecca Goldstein in Incompletezza (Codice 2006) definiva «le ragioni più persuasive che il pensiero moderno ci ha dato per rifiutare il mito dell’oggettività».
Il principio di indeterminazione, una vera rivoluzione del modo di vedere il mondo e la vita, dimostra non solo come la meccanica quantistica (lo studio dell’infinitamente piccolo che ha preceduto l’avvento delle stringhe ma che ancora oggi governa la ricerca fisica) sia il risultato di una stocastica che coniuga statistica e probabilistica ma anche come dalle particelle ottocentesche di Brown in poi, fino a Bohr e al suo principio di complementarietà, la verità - e con essa la realtà - abbia sempre più perso ragione, tanto da far dire a David Lindley in Incertezza (Einaudi, 2008) che «non esiste perché quel vedi varia a seconda di quel che cerchi». Persino la storia dipende non tanto da chi agisce e da chi parla ma anche da chi guarda e ascolta - al punto che la confusa escalation della guerra in Iraq fu interpretata dalla stampa Usa alla luce proprio del principio di Heisenberg. Il quale in sostanza stabilisce che ciò che si osserva si configura in funzione di chi osserva. 
Lindley fa l’esempio dell’antropologo che visita una tribù: il comportamento degli indigeni varia secondo l’atteggiamento dell’estraneo e non è più quello che sarebbe se lui non ci fosse. Un altro esempio riguarda il reportage giornalistico: un fatto viene raccontato dall’osservatore e cambia secondo appunto la sua percezione. Per ogni giornalista corrisponde un fatto diverso e dunque un’osservazione diversa. Che viene perciò colta e registrata in chiave sempre soggettiva.
Non c’è chi non veda come queste acquisizioni scientifiche facciano parte ab imis dell’invenzione letteraria, che lo stesso Lindley conta tra le applicazioni del principio di indeterminazione: un romanzo si trasforma infatti secondo la lettura che se ne fa e non c’è personaggio o ambientazione di esso che ricorrano identici nell’immaginario di due lettori. Quello che la scienza ha scoperto solo nel 1927 con Heisenberg era già connaturato nell’idea stessa di letteratura. Che nasce nel momento in cui l’uomo primitivo guarda il mondo e, come dice Vico, «ristà»: volendo capire i fenomeni cui assiste, inventa la metafora - e per spiegare l’ira crede per esempio davvero che il sangue ribolle - dopodiché produce il mito e quindi il racconto. 
In principio fu quindi la letteratura. Poi venne la scienza, che per spiegare se stessa è tornata all’inizio: costretta a mettere in discussione la propria certezza e concepire una incertezza che nasce agli inizi del Novecento, proprio quando - guarda caso - la narrativa conosce la scomposizione dell’io e scardina l’impianto naturalistico per un credo interiore e franto, decadentista e ispirato a un principio esistenziale giustappunto di indeterminazione.
Ma se è il caso a governare il mondo e ad averlo anche creato, che spazio rimane per Dio? Cosa ce ne facciamo se il suo intervento può aversi soltanto in sede miracolistica, sempreché esista, il che non è più necessario a non voler cadere nella superstizione? La domanda per chi è credente va posta in maniera diversa: perché Dio ha creato il caso e voluto quindi che l'uomo rispondesse all'arbitrio del creato? La risposta è proprio nel libero arbitrio, che non è un dono di Dio fatto all'uomo ma un suo alibi. Ed è soprattutto il più grande crisma del cristianesimo, pari solo al credo altrettanto esclusivo e dirompente della resurrezione.
Se Dio avesse agito nei confronti dell'uomo solo in forza della grazia, che è una variante paolina della predestinazione, per cui si è cristiani se chiamati, avrebbe dovuto regolare ogni azione dell'uomo dotato della sua benedizione secondo la propria volontà o disegno, dividendo dunque aprioristicamente l'umanità tra buoni e cattivi, salvati e dannati, chiamati e reietti. Così facendo avrebbe di conseguenza dovuto distinguere ciò che è bene e ciò che è male e quindi fare intendere all'uomo (quantomeno per essere creduto un Dio buono e non malvagio come quello veterotestamentario) quando e perché il male possa apparire un' ingiustizia e non essere né tollerato né giustificato. 
Ma quella che è chiamata teodicea, la spiegazione della presenza del male nel mondo, è una questione che ha posto l'uomo, non Dio. Il quale, rendendolo libero di agire a suo discernimento, lo ha messo di fronte al bene così come di fronte al male con le stesse possibilità di conseguire il primo e di commettere il secondo. Del resto bene e male non si definiscono in alternativa e ad excludendum, ma solo se esistono come prodotto unico e indivisibile, nel quale in tanto c'è il bene in quanto c'è il male, come facce rovesciate della stessa sfera, non essendo possibile che si possa, anche solo teoricamente, parlare di bene senza avere idea di cosa sia il male. E viceversa. Se tutto è bene, perché Dio ha voluto un mondi fatto del solo bene, non sarebbe il male a non esistere, ma il bene a essere inconcepibile e sconosciuto. "Senza diavolo niente Dio" diceva Pascal. Perché ci sia Dio è necessario che ci sia pure il Diavolo: lasciando qui di indagare su un problema scarsamente affrontato, che Diavolo e Dio non siano, come adombrerebbero alcuni passi della Bibbia, la stessa entità, così come il bene e il male costituiscono un'unica cosa.
Introducendo il caso, ogni questione si risolve da sé e Dio può lavarsi le mani intervenendo nel mondo come l'amministratore di un vasto sistema informatico, contro la volontà dei singoli e contro gli errori dello stesso sistema. Occorre partire in queste spiegazioni dalla semplice osservazione delle cose e da una domanda: se le leggi dell'universo, quale che sia il pianeta o la stella, sono dappertutto e sempre identiche e sono state volute da Dio, perché mai le leggi imposte da Dio quanto al suo statuto concesso all'umanità devono essere diverse e ubbidire a criteri imperscrutabili quando invece quelle universali le stiamo via via, mercé sua, scoprendo e comprendendo? Non è vero dunque che Dio non gioca a dadi, come disse Einstein. E' vero eccome invece, come gli fu risposto: non solo gioca ma sa pure dove finiscono.