sabato 30 agosto 2014

Favoreggiamento, reato ambiguo


Una ventina di esercenti palermitani sono stati denunciati per favoreggiamento personale non avendo confermato agli investigatori di pagare il pizzo. Sono gli ultimi di una lunga serie di commercianti per i quali l'omertà è diventata un reato.
L'art. 378 del Codice penale punisce chi aiuta "taluno a eludere le investigazioni dell'Autorità", chi dunque si attiva perché ciò avvenga. Chi tace è reticente, senonché la giurisprudenza assimila la condotta omissiva all'azione vera e propria idonea a intralciare le investigazioni. Questa interpretazione estensiva è nata in dottrina, una buona parte della quale però non vede nella reticenza una fattispecie di favoreggiamento per due ragioni: la prima è che non c'è alcun nesso tra l'omertà e l'intralcio delle investigazioni nel caso delle estorsioni, dal momento che gli investigatori non possono aver intrapreso alcuna indagine non sapendo chi è l'estorsore, perché altrimenti commetterebbero omissione d'ufficio se non lo arrestassero - e comunque l'estorto non può contribuire a determinare il reato di favoreggiamento non sapendo se l'anonimo che gli si presenta per il pizzo è oggetto di indagini; la seconda ragione è quella che parte della dottrina ritiene più fondata, per la quale il cittadino, ancorché a conoscenza di un reato, non è tenuto ad attivarsi perché sia arrestato il responsabile. Questo comportamento, fuori dai casi di flagranza, può anzi portare un privato cittadino a un'incriminazione.
Ma ci sono altre ragioni che rendono discutibile il favoreggiamento personale anche nei casi in cui il "delitto" di cui all'art. 378 sia di mafia, ipotesi nella quale la pena è ridotta a motivo del fatto che ancora di più il cittadino si trova nelle condizioni di non conoscere il reale autore del delitto. Il principio dell'onere della prova, per cui chi accusa è tenuto a dimostrare la colpa dell'accusato, consente all'imputato di tacere davanti agli inquirenti e anche in tribunale. Non solo: questa pratica processuale è quella più esercitata e consigliata dal difensore tecnico di parte. Se dunque addirittura un imputato è legittimato a mostrarsi omertoso, perché mai un incensurato o una persona non imputata deve essere obbligata a rivelare, a rischio della propria incolumità fisica e della sua famiglia, nonché dei suoi beni, l'identità del criminale o la consumazione del crimine a suo danno? 
Si ha il risultato che la parte offesa (la quale ha tutto il diritto di pretendere dallo Stato al quale paga le tasse che gli sia garantito il libero svolgimento della sua attività economica e venga assicurato l'ordine pubblico, come portatore di un interesse legittimo) si ritrovi accusata di collusione proprio con chi è la prima ad avere interesse a neutralizzare. E se dunque lo Stato è nell'obbligo, per il contratto sociale che stringe con il cittadino, di proteggere i commercianti da ladri, rapinatori ed estorsori, venendo meno a questo obbligo non è esso stesso che deve dal cittadino essere accusato di omissione e chissà se non pure di favoreggiamento?
Ma al di là delle questioni strettamente giuridiche - e il reato di favoreggiamento è quello più dubbio di tutto l'apparato positivo, prova ne siano le divergenze dottrinarie  - e guardando agli aspetti più etici e sociali, come si può perseguire chi chiede protezione e sa che, non avendola, rischia il peggio? Un conto è tacere se si è sottoposti a estorsioni nella prospettiva di un male maggiore da parte degli estorsori e un conto è collaborare con gli investigatori quando gli investigatori assicurino l'assenza di ogni rischio a suo danno. La realtà offre uno scenario ben diverso: gli investigatori non riescono a fermare gli estorsori e ritengono che ciò sia causa anche degli estorti omertosi. Non potendo prendere i primi incolpano i secondi. Di fronte alla vastità del fenomeno, questo atteggiamento dello Stato si traduce in una operazione di decimazione che ricorda ben altri e lugubri artefici. Non è da Paese civile, ma da Paese da temere.