lunedì 11 agosto 2014

Giuliano, sinonimo di mistificazione

Una scena del film "Salvatore Giuliano" (1962) di Francesco Rosi
Salvatore Giuliano fu il bandito attorno al quale la storia ha fatto spazio alla mistificazione concedendo che fossero dati per documentati fatti che solo la popolarità del personaggio (ingigantita dall'avergli attribuito ogni delitto commesso da quanti perpetravano vendette personali contando sull'impunità) ha potuto non smentire.
Molte verità sono emerse su episodi decisivi dell'intera vicenda ma la vulgata ha fatto premio sulle acquisizioni stabilendo, fra l'altro, che Giuliano fu ucciso nel cortile di Castelvetrano in casa dell'"avvocaticchio", che a ucciderlo fu Pisciotta e che Pisciotta morì avvelenato con un caffè alla stricnina. Gli storici (quantomeno quelli siciliani di estrazione giornalistica e quindi più aperti alle revisioni), da Nicolosi a Magrì ad Attanasio, hanno accolto per intera la versione corrente dei fatti relegando le nuove scoperte a note di piè pagina, così accreditando una mistificazione che oggi è molto difficile da sconfessare.
La verità è cominciata ad emergere via via che gli accoliti della banda Giuliano uscivano di carcere e, tornati a Montelepre e dintorni, cominciavano per la prima volta a rendere testimonianza diretta sui fatti che intanto avevano avuto una ricostruzione politicamente corretta, a cominciare dal conflitto a fuoco inscenato nel cortile di casa dell'avvocato De Maria che avrebbe avuto ospite quella notte Giuliano allo scopo di consegnarlo, secondo la volontà della mafia connivente con le forze di polizia, al sicario, il cognato Gaspare Pisciotta, che lo avrebbe ucciso nel sonno. 
Il corpo sarebbe poi stato portato all'alba nel cortile e lì steso a terra per fare credere che il celeberrimo e imprendibile fuorilegge fosse caduto sotto i colpi dei carabinieri che avevano risposto al fuoco. La messinscena fu facilmente smontata da un giornalista dell'Europeo che notò come il sangue, che usciva da alcuni fori di proiettile di un calibro diverso dagli altri, anziché scendere saliva lungo il corpo, segno che qualcuno gli aveva sparato prima e altri dopo che era stato preso di peso e riposto nel cortile.
Gli ex componenti della banda, al corrente da tempo della verità, non avevano inteso tenere il silenzio e avevano cominciato a parlare: dicendo che Pisciotta non c'entrava niente con il delitto e che il loro capo era stato ucciso la notte del 3 luglio a Villa Carolina, un casolare tra Pioppo e Monreale, da un altro gregario, anch'egli uscito di carcere, Nunzio Badalamenti, che gli diede appuntamento insieme con altri fuggiaschi in combutta come lui con i carabinieri. 
Il corpo fu messo nel ghiaccio per conservarlo e lasciato nel casolare per dare tempo ai carabinieri di preparare la messinscena, quindi portato all'alba del 5 su un furgone a Castelvetrano. La prova è nel corpo stesso perché presentava segni di autentico scotennamento di brani compatti e profondi che nessun trascinamento poteva determinare. Fece peraltro insospettire Michele Pantaleone, che ne aveva scritto già nel '62 su Mafia e politica, seppure tra mille cautele, il fatto che il letto di casa De Maria era stato trovato intatto. Ma la prova decisiva della mistificazione la ebbe Francesco Rosi, il regista del film sul bandito che però non si vede mai perché risultasse una figura mitica: trascorse molto tempo a Montelepre per conoscere lo spirito dei compaesani di Giuliano e all'anteprima vide il pubblico reagire come se guardasse le comiche perché sapeva che non c'era niente di vero nella ricostruzione ufficiale dei fatti.
Furono i monteleprini ad assolvere Pisciotta, che però nel film si vede fare una morte che sarebbe stata chiamata "alla Pisciotta" prima che venisse detta "alla Sindona". Ma Pisciotta, come sanno ancora oggi bene a Montelepre - e solo lì al mondo - non morì per aver bevuto in cella all'Ucciardone un caffè avvelenato, ma per una pillola velenosa contenuta nella confezione di compresse che prendeva ogni giorno contro la tubercolosi, per cui si sapeva che sarebbe morto ma non si sapeva quando, l'avvelenamento dipendendo dal momento in cui avesse preso la pillola sostituita a un'altra. Questa ricostruzione trova appoggio nel fatto che né magistratura né Commissione antimafia sono riuscite mai a stabilire chi avesse avvelenato e come Aspanu: se suo padre o la guardia carceraria, se con il veleno contenuto nel caffè o nello zucchero o in una medicina.
Pochi giorni prima di morire Pisciotta, dopo le rivelazioni sui mandanti di Portella delle ginestre ai giudici di Viterbo, ne aveva fatte in confidenza altre al sostituto procuratore Pietro Scaglione, il quale si era ripromesso di verbalizzarle interrogandolo formalmente. Deponendo davanti alla Commissione antimafia, l'ex deputato comunista Giuseppe Montalbano dichiarerà che il delitto Scaglione era in relazione alla morte di Pisciotta. Pantaleone aggiungerà che anche Ciro Verdianni (l'ispettore generale di Ps) e Cusumano Geloso (uno dei presunti mandanti della strage) morirono avvelenati perché a conoscenza della verità su Portella.
Giuseppe Sciortino, nipote di Giuliano
Il nipote di Giuliano, Giuseppe Sciortino, figlio di Mariannina e Pasquale Scortino, sostenuto dalla madre che confermò le sue rivelazioni, dichiarò in un mio programma televisivo trasmesso in tre puntate da un’emittente privata, Antenna 10, che Gaspare Pisciotta tradì lo zio ma non fu l’esecutore materiale del delitto: “Il vero assassino fu un aggregato alla banda morto ormai da un pezzo. Pisciotta lo narcotizzò e l’altro sparò”. L’altro fu Nunzio Badalamenti del quale Sciortino non volle fare il nome prima che la figura di Giuliano fosse riabilitata. Ma ciò non è avvenuto.
La speranza era riposta nel riconoscimento del ruolo avuto da Giuliano nell’Evis per l’indipendenza della Sicilia, scopo per il quale fu affissa vicino alla casa natale una lapide alla memoria dei caduti dell’Esercito di liberazione e nel trentennale della morte del bandito fu promossa una manifestazione di nostalgici separatisti che consacrarono Giuliano eroe rivoluzionario caduto per un ideale di libertà. L’allora sindaco di Montelepre Giovanni Maniace arrivò a chiamare Giuliano “nostro caro concittadino” e assicurò il suo contributo perché nascesse il “Castello di Giuliano”, una specie di museo adibito ad hotel e ristorante che oggi costituisce una meta turistica e raccoglie cimeli, documenti e fotografie dell’età di Giuliano.
Il momento era in realtà propizio. In quel periodo tornavano in libertà, circondati dalla stima cittadina, personaggi celebri come Gaglio, Terranova, Genovese, Barone, tutti affiliati alla banda. Uscendo si aspettava che dicessero la verità sui fatti di Portella della ginestra e sulla morte del capobanda e del suo luogotenente, ma si sono avute nel tempo solo mezze verità e tacite ammissioni, servite comunque a puntellare le rivelazioni di Sciortino, che disse di averle raccolto nelle file degli affiliati e nelle loro cerchie familiari. Rivelò allora Sciortino: "Mio zio aveva stabilito con il senatore Li Causi precisi accordi preelettoriali ed anzi aveva finanziato il Pci con cinquanta milioni di lire. Li Causi non mantenne i patti e Giuliano decise di sequestrarlo il giorno del suo comizio a Portella. Ci andò con tutta la banda e, per creare confusione e potere così rapire Li Causi, sparò ripetutamente in aria, senza sapere però che Li Causi si era fatto sostituire da un altro oratore. Uno della banda, Giuseppe Passatempo, sparò invece sulla folla e fu l'unico, perché era stato incaricato di compiere una strage dietro lauto compenso. Risulta dagli atti del processo di Viterbo che i proiettili che uccisero i contadini furono sparati da una sola arma e che però furono esplosi un totale di duemila pallottole, quasi tutte in aria, perché è evidente che sarebbero state molte di più le vittime se tutti i banditi avessero sparato sulla folla. Mio zio, dopo la strage, allontanò dalla banda Passatempo che per farsi perdonare assaltò da solo la sede comunista di Partinico uccidendo due persone.
“Non è nemmeno vero – disse esattamente Sciortino – che Giuliano fu ucciso a Castelvetrano in casa dell’avvocaticchio. Mio zio fu ucciso nella notte tra il 3 e il 4 luglio (e non giorno 5) a Villa Carolina, che si trova a metà strada tra Monreale e Pioppo. Fu poi tenuto sotto ghiaccio per rallentarne la decomposizione e dare tempo a Luca e Perenze, colonnello e capitano dei carabinieri, di architettare la messinscena del conflitto a fuoco nel cortile di De Maria. Poi, nella notte del 4, il cadavere fu trasportato su un furgone a Castelvetrano e la mattina del 5 fu data la notizia della morte. Tutto questo perché i capimafia non si misero d’accordo sul luogo dove inscenare la farsa del conflitto a fuoco. C’era chi voleva che la responsabilità fosse distribuita tra tutti”.
Questa versione non è del tutto nuova. Già Pantaleone l’aveva avanzata pur tra mille riserve e dirà, apprendendo delle rivelazioni di Sciortino, che non era un’ipotesi per niente inverosimile: “Bisognava salvare la mafia di Monreale che non voleva essere implicata. E comunque ci sono molte circostanze, come quella del letto nel quale Giuliano sarebbe stato ucciso trovato intatto, che la avvalorano”.
L’avvocaticchio Gregorio De Maria di quel lontano 5 luglio 1950 non volle mai dire nulla e si chiuse in un ostinato silenzio, non confermando né smentendo. La stampa aveva smontato la messinscena. Un giornalista aveva scritto che il sangue sul cadavere sembrava salire anziché scendere, ma nessuno ebbe un chiarimento da De Maria. Chi invece si rese molto loquace fu Gaspare Pisciotta rinchiuso all’Ucciardone. Preso a fare rivelazioni a pioggia, minacciando di chiamare sui fatti di Portella parecchi detenuti in correità oltre che autorità istituzionali di alto grado, si inimicò tutti e si cercò la morte. Così gli fu recapitata da fuori una confezione delle pillole che quotidianamente prendeva per curare la tubercolosi, pillole come tutte le altre, tranne una che era a base di stricnina. Perciò si sapeva che sarebbe morto avvelenato ma non si sapeva quando. Questa ricostruzione trovava appoggio nel fatto che né magistratura né Commissione antimafia sono riuscite a stabilire chi avesse avvelenato e come Aspanu con un caffè “corretto”: se suo padre o la guardia carceraria, se con il veleno contenuto nel caffè o nello zucchero. Lo era in una medicina.
Nel fantomatico terzo memoriale che Giuliano avrebbe scritto e che avrebbe voluto consegnare ai giudici di Viterbo sarebbe contenuta proprio la verità su Portella. Ma il memoriale, secondo Michele Pantaleone, sarebbe stato sottratto a Pasquale Sciortino (il marito della sorella Mariannina, sempre rimasta contraria a farsi chiamare Sciortino) appena giunto negli Stati Uniti. Mariannina dichiarò che era invece nelle mani di Maddalena Lo Giudice, la "santuzza" di Antillo. "Lei stessa" dirà la sorella di Giuliano "mi ha detto di avere avuto tutti i memoriali di mio fratello, che poi le furono sottratti da persone che solo lei conosce".
Precisò il figlio Giuseppe: “Io ho indagato a lungo su questo memoriale e non sono venuto a capo di niente. Così come ho indagato a lungo sui presunti figli naturali di mio zio: tutti impostori, spinti a dichiararsi figli di Giuliano perché ancora oggi si crede che mio zio sia morto ricco”.
Al cimitero di Montelepre Mariannina e il figlio non furono gli unici visitatori assidui della tomba del bandito. Il custode del tempo affermò di aver raccolto la confidenza di un distinto signore che gli avrebbe detto di essere il figlio di Giuliano: “Di tanto in tanto questo signore fa visita alla tomba insieme con due bambini e la moglie e arriva su una Mercedes targata Catania. Inoltre ogni due mesi circa viene a deporre fiori sulla tomba una distinta signora sulla cinquantina che si ferma pochi minuti e va via”. Era Maddalena Lo Giudice? Sciortino rivelò di essersi appostato dopo essere stato informato dal custode e disse che non era lei, che conosceva bene.
Il maresciallo Giovanni Lo Bianco, che fu l’artefice indiscusso della caccia a Giuliano, non credette nemmeno lui a Maddalena Lo Giudice. “La santuzza era solo una mitomane e non ha mai conosciuto Giuliano, il quale non ha avuto figli e non ha scritto memoriali di suo pugno. Se poté resistere sette anni uccel di bosco è stato perché rispettava religiosamente le donne. Non ne molestò mai nessuna e solo così riuscì a trovare sempre rifugio in ogni casa di campagna”. Lo Bianco fu l’accusatore di un suo collega, Giuseppe Calandra, anch’egli maresciallo dei carabinieri e impegnato nella lotta al banditismo. Calandra, che avrebbe ispirato Sciascia per Il giorno della civetta, fu da Lo Bianco definito un “falso eroe”. Incontrò Giuliano, è vero, ma per fargli atto di sottomissione scongiurandolo di risparmiargli la vita. Calandra ammise di avere incontrato il bandito, ma per intimargli di consegnarsi. Addusse che fu richiamato a Montelepre da Delia, dove era stato trasferito dopo l’incontro con il bandito, proprio per continuare a dargli la caccia. Pensò di scrivere un libro ma poi rinunciò all’idea. Chi si promise allora di farlo fu Giuseppe Sciortino, che si prese però tempo in attesa che tutti i protagonisti di quel tempo morissero. “Molti dei compagni di mio zio e mio padre hanno lasciato tutto scritto – disse -. La verità non è venuta fuori perché c’è gente che teme la riapertura del processo e troppe persone hanno pagato fino in fondo le loro colpe. Quando saranno tutti morti e non ci saranno più imputati da condannare, parecchi memoriali verranno fuori e molti misteri saranno svelati”. Ma la storia non è andata in questa direzione. Tranne Sciortino, tutti gli altri sono morti, ma i misteri sono rimasti e dei memoriali si è persa ogni traccia, anche se c’è ancora qualcuno che ne è alla ricerca.