domenica 10 agosto 2014

Gemellini, una sentenza impossibile



Respingendo il ricorso dei genitori genetici, il tribunale di Roma non ha fatto l'interesse dei gemellini ma quello dei genitori gestanti. Eppure il giudice Silvia Albano è proprio nel bene dei bambini che ha deciso.
Secondo lei, i figli sono di chi li partorisce e il legame affettivo genitori-figli si crea sulla base del concepimento e sin dall'innesto dell'embrione. Scrive esattamente la sentenza: "La letteratura scientifica è unanime nell'indicare come sia proprio nell'utero che si crea il legame simbiotico tra il nascituro e la madre. D'altro canto è solo la madre uterina che può provvedere all'allattamento al seno del bambino. Non può, pertanto, non ritenersi sussistente un interesse dei minori al mantenimento di tale legame, soprattutto alla luce del fatto che i bambini sono già nati e nei loro primi giorni di vita deve ritenersi abbiano già instaurato un significativo rapporto affettivo con entrambi i genitori e sono già inseriti in una famiglia".
Ci sono almeno quattro punti opinabili. 1) Che il legame affettivo di tipo simbiotico si crei nell'utero, quindi dal momento del concepimento è argomento che può piacere alla Chiesa e al dissolto fronte antiabortista che hanno sempre sostenuto la nascita della vita già dalla formazione dell'embrione. Se dunque è vero che un legame madre-figlio nasce subito allora si stanno commettendo in Italia migliaia di omicidi legalizzati ma impuniti. 2) Che sia la sola madre biologica a poter provvedere all'allattamento è smentito da una secolare casistica che rivela quanto diffusa sia stata la figura della balia. 3) L'interesse dei minori al mantenimento del legame con i genitori gestanti è concepibile solo quando i minori siano in grado di comprendere, al minimo, cos'è un legame e riconoscere la persona cui è legata. 4) A sette giorni di vita è del tutto impossibile che i gemellini abbiano potuto instaurare un significativo rapporto affettivo con entrambi i genitori. Per ovvie ragioni non ne hanno instaurato né di significativi né di insignificanti.
Quel che disturba della sentenza di Roma è la sicurezza con cui stabilisce e risolve questioni che sono irrisolvibili e che si prestano ad essere delle aporie, investendo interrogativi che solo la molteplicità del caso e la dabbenaggine di una biologa, che ha scambiato gli embrioni di due coppie infertili, hanno potuto sollevare in forme così drammatiche. Sarebbe come decidere chi abbia ragione tra Antigone e Creonte.
Si tratterebbe in sostanza di dover scegliere se i gemellini nati il 3 agosto siano figli di chi ha loro dato gli embrioni della vita o della donna che li ha gestiti e partoriti, nulla contando il padre che è stato solo spettatore e che è, per il giudice romano, padre per legge solo perché la madre biologica è sua moglie.
Se lo scambio degli embrioni fosse stato tale che, come è successo più volte, le due donne fossero rimaste incinte del seme dell'altro marito, la questione sarebbe stata facilmente risolvibile, dal momento che già si sapeva dell'errore in laboratorio: ogni coppia avrebbe avuto tutto l'interesse ad essere non quella gestante ma quella genetica. Ma così non è stato questa volta, per cui gli embrioni della coppia più matura si sta cercando di capire in quale utero siano finiti, mentre quelli - tre, per giunta tutti di classe A, ad alta fertilità - della coppia più giovane è certo che sono stati innestati nella donna aquilana che ha dato alla luce. La quale si sente la loro madre per esserne stata nove mesi gravida e per averli ritenuti realmente i suoi figli. 
Ma nel suo caso si è avuta una fattispecie diversa: quella dell'utero in affitto. Sicché, subito dopo il parto, sapendo già da qualche tempo che i bambini nascituri non erano figli del marito che aveva depositato il seme ed essendo entrambi i coniugi d'accordo sulla fecondazione in vitro assistita, la donna avrebbe dovuto, insieme col marito, fare subito due cose: restituire i gemellini ai loro genitori dei quali hanno il Dna e mettersi a cercare dove gli embrioni di lui - uno di classe A e due di classe B - fossero finiti. 
Potrà infatti succedere che un'altra donna darà alla luce, sempreché sarà possibile stabilire la destinazione degli embrioni, il loro figlio: motivo questo sufficiente perché sappiano per sempre di avere in casa due gemellini geneticamente di altri e di sapere in casa chissà di chi il figlio che certamente è di lui.
Si è creata una situazione nella quale si può dire che è certo il padre e non più la madre, rovesciando così un'antica certezza. E nella quale si può altresì dire che, se è vero che la madre naturale può vantare un legame con il figlio che partorisce, perché in realtà è suo, è altrettanto vero che il padre non è tale né tale si sente e ha tutti i motivi per cercare di scoprire che fine ha fatto il suo seme e nel grembo di quale donna estranea è finito.
Troppo sbrigativa e superficiale la decisione del giudice di Roma. Che avrebbe dovuto disporre immediate indagini sull'impiego degli embrioni dell'uomo diventato padre putativo e poi valutare al di fuori dello schema che fino ad oggi noi conosciamo, quello cioè del bambino scambiato nella culla. Stavolta ricorrono implicazioni ben diverse e complesse. Che, così come la questione è stata affrontata, non suggeriscono nessuna soluzione. La peggiore è quella prospettata da teorici sperimentalisti di dare ai due gemellini due mamme e due papà creando una famiglia allargata. Temiamo che possa esserne proposta un'altra: di dividersi i gemellini. Dal paradosso in cui ci troviamo finiremmo nell'orrido.