sabato 9 agosto 2014

Al di qua del bene e del male


La democrazia rappresentativa è considerata la forma di governo più vicina agli ideali umani fondati sulla legge naturale perché espressione del principio di maggioranza, per il quale l'antico credo totalitario "quod placet principi legis habet vigorem" trova correzione nella parte che sostituisce il popolo al signore. Ma è un abbaglio.
Se la democrazia retta sulla maggioranza è il criterio di governo ottimale, i giudici di Norimberga avrebbero dovuto mandare assolti tutti i nazisti, civili e militari, che altro non avevano fatto se non ubbidire a ordini superiori frutto di leggi antirazziali democraticamente approvate, cioè volute da un Parlamento la cui maggioranza rappresentava la volontà popolare prevalente.
Questa osservazione fu fatta dall'allora cardinale Ratzinger all'ateo Paolo Flores d'Arcais in un memorabile confronto tenuto nel 2000 sul tema appunto delle leggi morali e naturali. L'esponente comunista sosteneva, ripensando a categorie illuministiche, che la legge naturale ispira la condotta dell'uomo civile, il quale risponde a un indirizzo etico che è necessariamente maggioritario. Il futuro papa opponeva invece che la physis, la natura, non è l'elemento di giustificazione dell'uomo, perché ci sono azioni come l'aborto o la pena di morte che non sono atti naturali e condivisi. 
Per Ratzinger, che ha sempre operato per portare la ragione a casa della fede e che ha sempre creduto in un Gesù terreno e storico mantenendone la natura divina, secondo i principali dogmi cattolici, è la creazione il fattore fondativo dell'uomo. E' in base alla creazione che l'uomo è dotato di una coscienza naturale, la quale non è assoluta né immanente, ma soggetta all'arbitrio individuale fintantoché non intervenga la grazia divina e l'individuo non è "chiamato". Non è un'osservazione da poco.
Il discrimine tra legge naturale e creazione distingue il comportamento collettivo, nel senso che la natura non può non rifarsi a una volontà maggioritaria, democratica, mentre la creazione implica un rapporto individuale tra l'uomo e Dio che stabilisce in interiore hominis cos'è bene e cosa male sulla base non di un'etica sociale condivisa, mutevole per epoca e territorio, ma del messaggio della Rivelazione. 
Questa questione riguarda anche il tema della presenza del male nel mondo e quindi il problema della teodicea. Da sempre l'umanità si chiede perché Dio non solo tolleri il male ma lo ammetta avendolo creato. Perché, se il mondo è una sua creazione, non ha voluto che fosse improntato al massimo bene? A quale scopo ha voluto un'umanità che non solo soffrisse ma compisse anche il male più efferato? 
La risposta può ricercarsi proprio nell'idea di natura secondo la visione divina interpretata da Ratzinger: se la natura è l'insieme di elementi opposti tra i quali prevale il maggior numero di essi (come in uno Stato democratico conta la volontà della maggioranza e come avviene nella selezione naturale) e se quindi non c'è elemento che non abbia il suo antagonista e il suo contrario, così come nella fisica la materia comprende l'antimateria e nel cosmo l'energia oscura si vale della materia oscura, anche la natura umana è composta di parti antitetiche, in linea con quanto già i filosofi greci avevano scoperto. Non c'è il bello se non c'è il brutto, altrimenti non potremmo definire cos'è bello; non c'è il buono senza il cattivo e non c'è dunque il bene se non c'è anche il male. Pascal andava ben oltre postulando che senza il Diavolo non c'è nemmeno Dio.
Ora, per una legge naturale, un automatismo di natura, è necessario che se qualcuno subisce un male non può non esserci qualche altro che ne ricavi un bene. "Tutti i mali non vengono per nuocere" è un detto che sottende una volontà imperscrutabile anche relativamente solo alla sfera di una persona che subendo un danno può in seguito avere un vantaggio proprio in conseguenza di quel danno. Il male e il bene si giustificano quindi a vicenda e uno c'è in forza dell'altro. Da soli non sussisterebbero. 
Se per assurdo fosse possibile l'esistenza solo del bene o del male, avremmo la prova dell'esistenza di un Dio estremamente buono o estremamente cattivo e non ci sarebbe motivo di credere a un'entità soprannaturale perché la prova ontologica la avremmo nei fatti, così più che un Dio trascendentale avremmo un Dio empirico, non diverso da quello dei primordi dell'umanità. Ma è un'ipotesi impossibile perché se non conoscessimo il bene o il male non capiremmo che il mondo in cui viviamo è fatto di solo bene o solo male. E mentre siamo propensi a pensare che sia Dio a determinare il bene o il male in capo a una persona rispetto che a un'altra secondo un arbitrio che metterebbe così l'uomo nella condizione di impetrarne la pietà, siamo portati a chiederci perché Dio non si manifesti, realmente o con segni inequivocabili, in modo da sapere chi ci dispensa il bene e il male e capirne anche perché così da adeguare la nostra condotta. Nella Lettera ai Romani San Paolo esprime questo credo valendosi della speranza, che se si vede non è più tale. Per sperare occorre perciò non vedere. Dal canto suo, volendo confutare la resurrezione, Celso nel Discorso vero si chiede perché Gesù non sia apparso anche alla folla di Gerusalemme e al sinedrio anziché ai soli discepoli, così da dare prova della resurrezione. Se lo avesse fatto, Cristo non sarebbe diventato mai soprannaturale, qualcuno nel quale credere, ma un uomo dotato di poteri al quale sottomettersi per il suo potere.
Se l'oggetto del credo fosse stato ben visibile e concreto, quale motivo avrebbe dovuto indurre l'uomo ad esercitare la sua fede? Si crede in qualcosa che non vediamo mentre si è solo succubi di qualcosa che conosciamo. Un Dio perciò che impartisca pubblicamente il bene e il male sarebbe un signore-padrone al quale ubbidire come schiavi che ci chiederebbe di credere nella sua onnipotenza e non nella sua esistenza. Tra tutte le religioni, quella cristiana chiede di credere in ciò che è assurdo, per dirla con Paolo di Tarso: che un mortale vissuto tra di noi fosse Dio e che sia poi risorto per annunciare la resurrezione in carne ed ossa di tutti i morti. Credere a ciò richiede una fede talmente grande che solo, ricordandoci di Giobbe, la presenza del male assoluto e del bene assoluto può soddisfare.