La trattativa Stato-mafia è oggetto di un'inchiesta palermitana intesa a scoprire quali organi e figure dello Stato si siano piegati nel 1993 a concludere patti con Cosa nostra nel presupposto che questo costituisca reato.
In realtà si tratta del lavoro sporco che lo Stato affida a propri organismi più o meno segreti perché tutelino interessi superiori che in America sono posti sotto il sigillo della "sicurezza nazionale". La differenza è che in Italia il lavoro della Cia viene talvolta svolto direttamente da esponenti istituzionali anche di governo, ma la funzione cui assolvono non è mai di tipo privato, bensì nell'interesse del Paese, quindi riconosciuta dalle leggi e da un'abbondante casistica.
In realtà si tratta del lavoro sporco che lo Stato affida a propri organismi più o meno segreti perché tutelino interessi superiori che in America sono posti sotto il sigillo della "sicurezza nazionale". La differenza è che in Italia il lavoro della Cia viene talvolta svolto direttamente da esponenti istituzionali anche di governo, ma la funzione cui assolvono non è mai di tipo privato, bensì nell'interesse del Paese, quindi riconosciuta dalle leggi e da un'abbondante casistica.
Una trattativa di questo tipo fu instaurata nel 1978 da chi veniva dichiarato allora il leader politico più dotato di senso dello Stato, Aldo Moro: che trattò la propria liberazione con il governo Andreotti e con la Dc di cui era presidente non in nome dello Stato ma delle Brigate rosse, facendosene consapevole interprete e portavoce per convenire uno scambio di detenuti, cosa del resto comunissima nelle guerre dove ogni Stato belligerante non riconosce la legittimità dell'altro ma accetta tuttavia di scendere a patti nel superiore interesse di salvare vite umane. Ebbe ragione il partito della fermezza, sostenuto da gran parte dell'opinione pubblica, decisa a non cedere al terrorismo. Per spuntarla il presidente del Consiglio Andreotti invocò le madri e le mogli dei caduti del terrorismo, che certamente non avrebbero accettato una resa sul sangue dei loro congiunti. In L'affaire Moro Leonardo Sciascia si chiese se i cinque uomini della scorta rimasti uccisi "facevano ragione perché ce ne fosse un sesto". Non potevano - anzi non avrebbero potuto - fare ragione in nome delle ragioni cui Moro nelle sue lettere si appellava: il primato della vita umana, fondato su un eccezionale stato di necessità contemplato dalla legge e ispirato alla dottrina cristiana della Democrazia cristiana. Scriveva Sciascia che dopo venti giorni di prigionia Moro "spera nella trattativa e offre al partito un argomento che può servire a giustificarlo di fronte agli altri partiti e all'opinione pubblica: l'argomento dell'aver pensato sempre così, in coerenza all'esser cristiano. Così pensava Moro già qualche anno prima: che tra il salvare una vita umana e il tener fede ad astratti principi si dovesse forzare il concetto giuridico di stato di necessità fino a farlo diventare principio". Ma Moro si trovò di fronte a "una insospettata e immane fiamma statolatrica" che rese lo Stato italiano simile a un moribondo che "si alzasse dal letto, balzasse ad attaccarsi al lampadario come Tarzan alle liane, si lanciasse alle finestre saltando, sano e guizzate, sulla strada". Resuscitando.
L'impressione nella situazione attuale è che lo Stato sia un'altra volta resuscitato, risvegliando il partito della fermezza ai cui occhi la salvezza nel '93 di vite umane in cambio di concessioni carcerarie alla mafia appare oggi un bene minore nonché una colpa penalmente rilevante, proprio in analogia col cedimento al terrorismo in occasione del rapimento di Moro. Una nuova fiamma statolatrica ha ghermito le coscienze di un Paese che passa come cattolico e che professa la sacralità della vita umana come mero rito da concelebrare, non diverso dal costume di partecipare all'obolo in chiesa e ignorare la zingarella con la mano tesa all'uscita.
Eppure non si ebbero processi né polemiche al tempo della cattura di Salvatore Giuliano, preso con le stesse modalità con cui si è arrivati alla cattura di Riina, introibo al patto Stato-mafia. Si trattò di una colossale trattativa che vide impegnati i Mori del tempo, l'ispettore Verdiani e il colonnello Luca, oltre ai loro luogotenenti, e coinvolse anche il ministro Scelba. Il primo incontrò il bandito proponendogli la fuga all'estero in cambio di un suo memoriale. Il secondo si accordò con la mafia per farlo fuori con la messinscena del conflitto a fuoco. Nessuno dei due riferì o chiese autorizzazione ai superiori.
Il risultato, l'unico rilevante per lo Stato, fu l'eliminazione del bandito da prendere vivo o morto, meglio morto, e preso infatti con la benaccetta partecipazione della mafia di Monreale, il cui contributo, frutto di una trattativa e di un patto, non fece storcere il naso nemmeno ai giornali quando scoprirono l'affare.
Uno Stato che persegue obiettivi capitali, alla cui riuscita occorre il ricorso a mezzi da non portare in una conferenza stampa ma necessari, non stabilisce mai patti scellerati, tali da dover essere puniti, ma conclude operazioni non diversamente realizzabili e tuttavia ineludibili. Si chiama ragion di Stato, la stessa che Moro invocò per sé e che rimase inevasa mentre era valsa per accordarsi con la mafia e prendere Giuliano ed è invece ritenuta inapplicabile oggi benché sia stata intesa a fermare la mano omicida di Cosa nostra. Una ragion di Stato che può legittimare comportamenti sia pure censurabili come quelli cui ha dato adito Mori non arrestando anzitempo Riina per seguire disegni che promettessero risultati maggiori o tutelare apparati dello Stato. E' così che funziona la Cia, come il Kgb o il Mossad, anzi peggio, molto peggio. Ma nessun americano, russo o israeliano ha mai accusato i suoi Servizi di intelligenza col nemico. In Italia invece ci facciamo prendere, schizofrenicamente, da fiamme statolatriche di ritorno o da sbracamenti senza ritegno.