Si può parlare di una persona conosciuta solo attraverso la sua opera, ma non si può che parlare dell'opera e non della persona, in questo caso l'autore. Io voglio parlare di un giornalista che non ho mai incontrato e col quale non ho mai parlato, autore non di libri ma di giornali. Un giornalista palermitano che è morto a 49 anni, Francesco Foresta.
In Sicilia è noto un tipo di morte violenta che non è solo quella per mano omicida ma anche quella cosiddetta naturale. Fu Gesualdo Bufalino a indicarla, senonché egli ebbe una morte violenta, a differenza della sua Marta di Diceria dell'untore, così come di mastro don Gesualdo, padron 'Ntoni, il principe Salina: tutti morti naturalmente e quindi violentemente perché contro l'ordine naturale della vita.
Anche Francesco Foresta ha avuto una morte violenta. Ma è il primo ad averla accettata come un fatto naturale. Con una forza d'animo che gli è valsa a pianificare la morte, decidendo la chiesa del funerale, immaginando i presenti e volendo che fosse letto il suo ultimo articolo, un addio scritto in vita: con una ironia che ha reso appunto naturale un evento di fronte al quale chiunque atterrisce. Foresta ha rivoltato il canone siciliano non solo della morte naturale correlato di quella violenta ma anche come lamentazione e perdizione e, pur sostanzialmente laico, ha affermato il credo in un Aldilà dove è la fede il viatico supremo e più sicuro. La lettera che ha lasciato da leggere davanti al suo feretro si chiude con queste incredibili parole, seguite ai ringraziamenti e alle raccomandazioni ai colleghi nonché agli attestati di gratitudine nei confronti dei medici, ancorché impotenti: "Ora scappo. Devo capire se qui oltre al caffè Lavazza c'è qualche connessione valida".
Chi mai scherzerebbe in questo tono con la morte che è ferma a un passo ad aspettare? Cosa si prova se non quanto sentono i condannati a morte davanti al patibolo? Che sensazione dà la morte certa e incombente? Foresta l'ha desacralizzata suscitando un sorriso invece di ricercare una lacrima consegnandosi ad essa con un coraggio che è un testamento religioso, un lascito a cogliere anche nella morte una forma di vita dove portare con sé la gioia con la quale si è vissuti, se la gioia è tantissima come quella che fino all'ultimo ha animato Foresta.
Immaginandosi in un Aldilà dove possa continuare a fare il giornalista, Foresta ha inteso abbattere il muro horribilis che separa la vita e la morte e ha gettato un ponte che dall'una all'altra dimensione non rende estranei a se stessi nell'annihilatio hominis ma vivifica i foscoliani "amorosi sensi" in una risata, quantomeno in un sorriso, che si è reiterata in una foto gigante dietro la bara proprio nei giorni in cui di una risata suscitata per lavoro altri giornalisti sono morti uccisi.
Al di là delle puntate retoriche, dell'elenco di gratulatorie di cui la lettera di Foresta è cosparsa, delle tirate celebrative di un successo editoriale (le testate "Love Sicilia", "S" e "LiveSicilia") che è stato frutto, se tale è veramente, più di trame politiche germinate nel sottobosco regionale che di eccelso talento giornalistico, che pure c'è stato e c'è e che è stato merito soprattutto di Foresta, direttore e coeditore, la lettera di Foresta e con essa i funerali sceneggiati e coreografati per tempo in vita, fino a informarsi sul nome del celebrante da nominare post mortem, valgono per quanto ci dicono di un siciliano extra ordinem che alla morte ha voluto tirare giù la maschera come una strega farebbe con la luna inorgogliendosi nella vita che perde mostrando con un colpo di spalla il petto all'ultima impostura.
Anche quella di Foresta è una forma di outing e se non può dirsi una specie di terapia è certamente una particolare maniera di esorcizzare la morte. Senza mai nominare Dio né riferirsi in qualche modo al cielo e alla vita eterna, Francesco Foresta ha elevato un inno alla vita che è stato anche una liturgia alla volontà e alla misericordia divina. Uomini così ricordano i soldati del Carso che corrono verso la morte certa dopo avere scritto l'ultima lettera d'addio alla moglie e ai figli, lasciando di sé una parte in vita e offrendosi alle tenebre nella luce di una nuova vita. Con l'attitudine di chi risolve tutto con un sorriso.