Articolo pubblicato il 4 febbraio 2015 su Repubblica di Palermo
La domanda ogni anno è: la “bara” rientrerà poco prima dell’alba del 5 o a giorno fatto del 6? La risposta non riguarda tanto gli oscuri interessi di ambienti più o meno mafiosi intesi ad allungare la festa e accrescere dunque i guadagni delle bancarelle, interessi oggetto (oltre che di un comitato spontaneo nato per osservarne la regolarità) di più inchieste giudiziarie relative anche alle scommesse tra le candelore, quanto la possibilità di stabilire fino a che punto la tradizione è stata stravolta e quanto dell’antica festa è oggi rimasto. Se si toglie l’aggiunta della dodicesima candelora, quella di Villaggio Sant’Agata, nel tempo lo spirito religioso si è sempre più laicizzato tanto che è stato istituito un premio destinato a catanesi benemeriti, la “candelora d’oro”, che poco o nulla ha a che fare con la devozione per Sant’Agata e con una festa che, per partecipazione popolare, è pur la terza al mondo dopo quelle di Santa Rosa di Lima e della Settimana santa di Siviglia.
Quel che è rimasto immutato nei secoli è il senso di enorme assembramento, di calca, di rumoreggiamento e di concitazione che nel movimento estatico di derivazione pagana fa della festa della patrona di Catania un ‘helzapoppin’ di suoni, odori e grida sospeso in una costante aria di pericolo incombente, sotto la quale la corsa forsennata e inesausta della santa per la città è simbolo della sua febbre di soccorso immediato in favore dei catanesi, al pari di un’antica dea Demetra che scorrazza in frenetico per trovare la figlia. Il rischio di finire intrappolati nell’enorme folla soffocante e fuori controllo è visto come un atto di fede e di sfida fatto per esaltare chi, dei catanesi convinti che vedere l’Etna da vicino significhi arrivare a un passo dalla lava, riesca tanto più ad avvicinarsi al fercolo nei momenti in cui, come nella Salita di Sangiuliano, la sua corsa al traino diventa un risiko, nel ricordo funesto della decina di feriti e del giovane devoto morto nel 2004.
Così, dagli anni Ottanta in poi la tradizione per secoli rimasta inalterata si è andata via via snaturando. E’ scomparsa la corsa dei cavalli berberi, come anche la “cavalcata delle autorità” alla Marina, tanto che l’antico “Liber cerimoniarum” di Alvaro Paternò che nel 1522 disciplinava la festa è oggi un museo della tradizione. Una tradizione che si legava soprattutto al rispetto di tempi e di orari celebrati come riti. La Salita dei Cappuccini era scrupolosamente percorsa per esempio alle quattordici in punto in memoria dell’ora, dov’era il pretorio romano, del martirio della patrona. Oggi il passaggio del fercolo non avviene, giorno 4, prima delle diciassette. E ancora: il 5, prima dell’alba del 6, si aveva il canto delle clarisse che oggi si ha dopo le undici al termine del giro interno cosiddetto “nobile”, che ha portato da tre a quattro i giorni canonici ed effettivi dei festeggiamenti. Sui quali due schieramenti contrapposti ogni anno disputano tra ritorno all’osservanza delle tradizioni e deregulation del programma.
Dell’antica tradizione si è perso, ormai dalla fine dell’Ottocento per iniziativa del cardinale Dusmet, il momento più caratteristico, quello delle ‘ntupatedde, tema della novella La coda del diavolo di Verga: “A Catania la quaresima vien senza carnevale; ma in compenso c'è la festa di Sant'Agata, gran veglione di cui tutta la città è il teatro, nel quale le signore, ed anche le pedine, hanno il diritto di mascherarsi, sotto il pretesto d’intrigare amici e conoscenti, e d’andar attorno, dove vogliono, come vogliono, con chi vogliono, senza che il marito abbia diritto di metterci la punta del naso”. In molti Comuni della provincia etnea il diritto della ‘ntupatedda è però sopravvissuto a Carnevale fino alla fine degli anni Sessanta, sicuro retaggio dell’antica kermesse catanese che in Sant’Agata univa sacro e profano in una visione globale così identitaria da indurre il duca di Camastra, al momento di ridisegnare Catania dopo il terremoto del 1693, a tenere addirittura conto dei giri, interno ed esterno, che le processioni erano tenute a compiere.
Sant’Agata impronta così tanto Catania da fare scrivere a Federico De Roberto che “se già degli edifici pagani restano vestigi tanto scarsi e malconci, neppure dei tempii cristiani, costruiti a spese delle classiche architetture, i terremoti hanno lasciato maggiori testimonianze. Quasi tutto ciò che resta parla di Sant’Agata”. La chiesa alla Fornace, la chiesa del Santo carcere, la chiesa di Agata la Vetere, il duomo con i bassorilievi del suo coro in merito ai quali Alexander Dumas scrisse che “nessuno vi fa attenzione, nessun libro ne parla, nessun cicerone pensa di mostrarli mentre sono una delle cose più notevoli di quella chiesa”, e soprattutto la sua festa istituzionale: ridimensionata, prosaicizzata, condizionata da poteri estranei ma specchio fedelissimo della coscienza catanese più esuberante, indomita e contraddittoria. Quando tre anni fa la Salita di Sangiuliano fu annullata per la pioggia si ebbe una mezza rivolta di incappucciati che ostacolarono il rientro della “bara”: a volere il rispetto della tradizione furono proprio quelli che intendevano innovarla.