giovedì 25 giugno 2015

L'associazione mafiosa che i siciliani non conoscono


Articolo uscito il 24 giugno 2015 su Repubblica di Palermo

Il Maurizio Zamparini che definisce la mafia “un’invenzione” (intonando il vecchio credo per cui la mafia non esiste) non dice nulla di cui debba scusarsi come ha poi fatto, perché non interpreta - da forestiero peraltro - che un sentimento diffuso e radicato in Sicilia, dove a essere nota alla coscienza storica non è la mafia come associazione ma la mafia composta di singoli mafiosi.
Introducendo nel 1970 il libro del tedesco Henner Hess, “Mafia”, Leonardo Sciascia ne fa propria - e con calore - la scoperta, arrivata dopo quattro anni di ricerche, secondo la quale un imputato mafioso “non mente quando dice di non sapere cos’è la mafia. In realtà egli conosce individui detti mafiosi, non perché siano membri di una setta segreta ma perché si comportano in un determinato modo e cioè in maniera mafiosa”. 
Per i siciliani che fecero la prima conoscenza con l’insorgenza mafiosa, la setta segreta era unicamente la società dei Beati Paoli mentre la “maffia” altro non indicava che un comportamento da ribaldo, non privo però di qualche fair play. Presentando Hess, Sciascia si spinge addirittura oltre: “I termini mafia, mafioso, non hanno senso: indicano quel che sono parentela, comparatico, amicizia, rapporti di affari; il saper tenere fede a questi rapporti e il rivolgerli a un fine di reciproco profitto, di miglioramento economico e sociale; un giudizio sulle cose del mondo, sulla necessità della forza, della legge e dell’ordine non dissimile da quello che vede realizzato nello Stato”. Per questa via Hess avverte dunque che “la parola ‘mafia’ può essere utilizzata alternativamente all’espressione ‘comportamento mafioso’ e in definitiva contraddistinguere un preciso modo di agire”. 
Così stando le cose, lo sforzo maggiore compiuto dai siciliani nel prendere coscienza della realtà è stato di considerare i mafiosi alla stregua non più di persone di rispetto ma di delinquenti. Di più non hanno potuto. L’aver quindi chiesto loro di vedere i mafiosi come associati in clan ai quali, solo per il fatto della loro costituzione, sia imputabile un reato ancora più grave del singolo atto criminale, dovendosi per giunta rovesciare il significato sacrale di “famiglia” in un’accezione spregevole, ha significato il disconoscimento della nuova figura sociale dell’associazione di tipo mafioso, nata nel 1982 dopo il delitto Dalla Chiesa ma già respinta dodici anni prima da Sciascia per di più nella sua formula semplice di associazione per delinquere. E’ certamente documentato che i siciliani non pronuncino la parola “mafia” con la stessa circospezione con cui fanno i nomi dei mafiosi, ancorché debbano avvertire come più temibile la prima che non il più minaccioso dei secondi.
Questa idea di responsabilità personale, anche penale, è del tutto connaturata alla concezione siciliana, per modo che le sono sostanzialmente estranei fenomeni quali la faida e la vendetta trasversale, invalsi come per assuefazione, soprattutto la seconda, dopo l’istituzione del delitto di associazione mafiosa. E’ stata avvertita come una reazione impulsiva e scomposta l’istituzione da parte dello Stato prima del 416 bis e dieci anni dopo del 41 bis, reati introdotti solo a seguito di omicidi eccellenti e non in forza di una reale strategia di governo frutto di elaborazioni dottrinarie o di stimolazioni civili. 
La considerazione popolare di cui godono i figli di Riina, che non sono né “dissociati” né “disponibili” ma semplicemente bravi cittadini, non nasce dal timore che possa incutere il padre ma dal comune convincimento che ciascuno risponde per sé di fronte allo Stato non meno che alla propria “famiglia”, il solo organismo clanico che i mafiosi conoscano, così come la gran parte dei siciliani. Suscitò perciò rabbia la sentenza che tempo fa condannò per associazione mafiosa il figlio di un boss che era stato “combinato” per gioco e al quale nessun reato fu contestato se non quello di aver preso parte a una “punciuta”. Di conseguenza ha ben ragione il figlio di un affiliato a chiedere al padre, come è successo a Palermo, se un giorno arresteranno anche lui per la sola colpa di appartenere a una famiglia mafiosa, così come ha ragione il padre a rispondergli che “la mamma allora non sarebbe dovuta più uscire dal carcere per le cose che ha sentito”.
Sennonché la cronaca degli ultimi decenni ha dimostrato, se non fossero bastati Falcone e Borsellino, che la mafia è una vera e propria associazione per delinquere speciale, tanto da chiamarsi essa stessa “Cosa nostra”; tuttavia nella percezione generale questa dimensione collegiale non rileva affatto, ancor meno in quella dei mafiosi, che intendono la cosa nostra non più che l’oggetto degli interessi di ciascuno di loro. La prova è nei “pizzini” di Provenzano, che non se ne sarebbe certamente servito nei modi che conosciamo, con l’uso di numeri identificativi e di un linguaggio coperto, se avesse avuto contezza, insieme con gli altri affiliati, di commettere un reato ancora più grave di qualsiasi altro di cui potesse mai personalmente macchiarsi. 
Se l’associazione di tipo mafioso è vista quindi come un’astrazione, il concorso esterno è ancora meno comprensibile nell’ottica di certa cultura siciliana in genere e dei mafiosi in particolare. “Questa non è mafia, ma delinquenza” sentenzia in “In nome della legge” il barone Lo Vasto alla notizia dei muli rubati: così distorcendo una realtà che si offre a un’interpretazione difforme e mai condivisa e univoca. In questo quadro il voto di scambio riesce il reato più astruso agli occhi dei siciliani: è punito se il politico che chiede il voto promette quanto non può dare legalmente (un posto di lavoro che richieda il concorso), non lo è se invece può farlo (una concessione edilizia). Se però il voto è richiesto alla mafia è sempre e comunque reato, come se la mafia di per sé avesse diritto di voto. In realtà ha la forza per indurre chi ha il diritto di voto ad esercitarlo secondo sue perentorie indicazioni. Sebbene con tutt’altri mezzi ma allo stesso fine, anche la Chiesa dispone però della stessa forza di persuasione, eppure non risponde di voto di scambio né sono chiamati a farlo i sacerdoti sul pulpito.
Ad osservare queste dinamiche si ha la sensazione che lo Stato parli un linguaggio che in Sicilia non è facilmente e del tutto compreso: termini, leggi, fenomeni sociali sembrano appartenere a mondi diversi. Non è che i siciliani siano perciò disobbedienti e indisciplinati. Il fatto è che non capiscono quello che lo Stato vuole dire. E se non lo capiva nemmeno Sciascia...