«I gesti esteriori di religiosità non bastano per considerarsi in comunione con Cristo». In un recente appello alla conversione rivolto ai mafiosi, papa Francesco ha ricordato gli inchini durante le processioni davanti alle case dei boss: non dichiarandoli gesti cattivi ma solo insufficienti. In Sicilia questi “gesti esteriori” sono sempre stati visti e vissuti, quanto all’osservazione letteraria, entro una molteplice e variegata cosmogonia.
Giovanni Verga, il più attento alle ricadute della religione nel reale, portò con sé in Settentrione un bagaglio di proverbi e costumi siciliani nei quali figurava anche il rito della processione. Così, prima a Firenze - nei Nuovi tartufi - ambienta una liturgia di frati che si muta in un assalto contro i popolani «a colpi di croce e torce»; poi a Milano - in Primavera - immagina la Principessa e Paolo che mimano l’amore «come dei bimbi giocano alla guerra o alla processione». Si tratta di un’idea di processione tutt’altro che mistica e devozionale trascendendo in tumulti e in correlato di guerra: idea che peraltro ritroviamo nelle foto di Letizia Battaglia, vivide di bambini che si fingono vittime e killer delle guerre di mafia, e in quelle di Ferdinando Scianna e Giuseppe Leone con i loro miti religiosi trasfigurati in riti tribali: a segnare un archetipo siciliano nel quale guerra e credo non sono che il portato di quel rovesciamento della morale cristiana che Leonardo Sciascia teorizza nella materialità di un antivangelo.
In Mastro don Gesualdo questa violenza che si vale della fede traluce nel proposito di quanti pensano di «sfondare l’uscio della chiesa e portare il santo in processione» al culmine di «bestemmie e sorgozzoni sul sagrato». E’ una violenza tutto sommato apollinea e festosa, tanto che l’ingresso di don Gesualdo in società si ha per la processione del patrono in casa Sganci dove è ammesso con l’intera nobiltà per seguirne il passaggio dal balcone - la cui camera non può essere mai venduta per non privarsi del privilegio dell’affaccio, nonostante «l’odore di prossimo che viene da laggiù». Questo clima di gioia integra uno spirito che in Nedda diventa anche georgico: «Venne la Pasqua colle sue allegre processioni tra i prati verdeggianti e sotto gli alberi carichi di fiori, colla chiesuola parata a festa».
In Pirandello la processione cambia invece volto e assume un connotato dionisiaco. Nella Giara è «un delirio per le vie» e un «clamore confuso», sicché nell’Esclusa il fercolo è «ferrato per poter resistere alle scosse della disordinata bestiale processione», mentre nel Signore della nave l’io narrante testimonia di aver visto «raccogliersi tra spinte e urtoni tutta quella folla ubriaca e imbrancarsi in processione dietro a quel terribile Cristo flagellato su la croce nera» e di aver immaginato due maiali dirsi, vedendo la funzione, «e poi i porci siamo noi». In I vecchi e i giovani la violenza trasmoda addirittura in rivolta quando «il popolino, coi ritratti del re e della regina, un crocifisso in capo alla processione, grida “Viva il re! Abbasso le tasse”»: una processione che finisce in una strage con undici morti sulla coscienza dei soldati proprio del re.
Nella Sicilia di fine Ottocento c’è anche la processione carnascialesca, dove il sacro si mischia al profano e i cortei delle confraternite al seguito del fercolo diventano oggetto di derisione, com’è in Profumo di Capuana. Il quale anziché i santi sono i flagellanti piagati e penitenziali che indica come interesse primario dei fedeli. Quei fedeli visti nel Marchese di Roccaverdina in figura di «gonzi che si affollano dietro a don Silvio recitando il rosario, con la croce e i lanternoni, e sciupano scarpe e fiato» per invocare la pioggia. Quanto peraltro fa il priore di Federico De Roberto che nei Vicerè riferisce ai contadini in pena «di aver disposto un triduo a Nicolosi e una processione per impetrare la pioggia».
Ma la processione serve anche ad ammansire il cielo. Padre Anastasio del Marchese di Roccaverdina parla «di una gran processione di penitenza, a piedi scalzi, con corone di spine e disciplina, per placare lo sdegno divino» dopo l’oscuro omicidio commesso dal marchese. Che è l’unico a invertire l’antica tradizione secondo cui la processione deve inchinarsi o fermarsi sotto casa di un nobile (come negli Americani di Rabbato dello stesso Capuana deve fare la statua del patrono in ossequio non ai nobili ma agli arricchiti tornati dall’America e a tutti i loro parenti): chiede che parta da casa sua dov’è un gran crocifisso che darebbe in regalo.
L’inchino al casato è un obbligo, da ripagare con spari di mortaretti, come fanno il principino Consalvo dei Viceré e gli “americani” di Capuana, gli avversari dei quali definiscono però una “pulcinellata” quella «di doversi fermare ad ogni posto per sentirsi sparare in faccia quattro razzi». Ma può succedere, come in Mastro don Gesualdo, che «allorquando la processione di San Giuseppe si fermò davanti al portone dei Trao, per l’omaggio tradizionale alla famiglia, le finestre rimasero chiuse, malgrado il vocio della folla». Don Ferdinando è morente e la folla vuole rendergli omaggio portandogli sotto casa il santo guaritore, ma la famiglia Trao è nobile ed ha della morte una concezione riservata, da non esibirsi in piazza: così «il prete, il baldacchino, i lanternoni del viatico passarono come una visione» e don Ferdinando li vide dalla finestra socchiusa, forse volendo dare ascolto alla folla che protestava per lo sgarbo al patrono.
Ma ci sono casi inversi nei quali, a quanti si siano resi indegni, è fatto divieto di affacciarsi per vedere passare la processione. In L’esclusa la folla si ferma vociante sotto la casa delle quattro sorelle chiacchierate per costringerle a ritirarsi. Senonché la signora Agata, indispettita, chiude le imposte così forte che un vetro va in frantumi. Allora la folla inferocita batte più volte contro la ringhiera di ferro del balcone la testa di uno dei santi Cosma e Damiano. «A ogni testata tremava la casa» scrive Pirandello. Al quale dobbiamo della fermata d’omaggio sotto casa anche due varianti. La prima divinatoria, quando nella Mosca racconta di una riffa e della Madonna portata, «tra canti e suoni di tamburi, alla casa del sorteggiato», elevato all’altezza di un ricco capuaniano e di un nobile verghiano e quindi da onorare; e la seconda blasfema, in Visto che non piove, dove «le femmine del popolo si paravano dando uno spettacolo di sacrilega vanità atteggiate tutte come l’Immacolata con le mani un po’ levate e aperte innanzi al seno».
Nel Novecento la processione siciliana perde tuttavia la sua carica teurgica. Scompare dai romanzi siciliani come snodo centrale qual è stato nel verismo e si laicizza desemantizzandosi. Nel Gattopardo di Lampedusa si traduce infatti in claustrali recite del rosario. Nella Città del mondo di Vittorini è il ricordo della Madonna a cavallo di Scicli vista da bambino in processione e trasmutata in Zobeida, una prostituta.
In questa chiave, parlando dei riti pasquali Bufalino vede in essi la «pantomima del dolore», una specie di adagio «che non esclude qua e là un presentimento di scherzo, man mano che si sviluppa la grande macchina di processioni, sacre rappresentazioni, sempre ispirate alla simulazione del cordoglio».
Nelle Parrocchie di Regalpetra Sciascia narra di una processione finita in commedia e in una zuffa vinta dai comunisti quando i regalpetresi pretesero che la statua della Madonna di Fatima fosse consegnata loro dai castrensi, reduci da una processione di sette chilometri, alle porte del paese senza che arrivassero alla loro matrice.
Fino ad arrivare ad Andrea Camilleri che ne fa una ribalta da sotie. In Il corso delle cose la processione di San Calogero viene vietata dal vescovo perché dà sfogo a contubernali pagani, sicché di fronte alle proteste si decide di sconsacrare il santo dopo la processione così da renderlo libero di fare a modo suo, ma viene visto sbadigliare in mancanza di ogni eccesso. In Un filo di fumo i ricchi commercianti promuovono una processione per grazia ricevuta mentre i poveri celebrano una messa per le loro vittime. Nello Stivale di Garibaldi i risorgimentali chiedono al prefetto l’autorizzazione a portare lo stivale in processione. Nella Setta degli angeli Matteo Teresi si affaccia al balcone al passaggio della processione e al sostituto del capomafia dice a voce alta di salutarglielo. L’inchino si è convertito in sberleffo.