venerdì 10 luglio 2015

In Sicilia si fa il male per perseguire il bene



Se il Fattore K definiva l’impossibilità del Pci, il secondo partito nel 1979, di andare al governo per via del peso del terzo e del quarto, quello socialista innanzitutto, il Fattore S, dove S sta per Sicilia, designa la condizione di ingovernabilità nella quale si trovino quella giunta di governo e quel presidente di Regione per la presenza di forze capaci di formare maggioranze materiali e ombra o comunque di porsi come opposizioni rumorose.
La formula politica consona al governatore che sia a corto di numeri in Aula, formula anch’essa frutto di quello spregiudicato laboratorio politico che è sempre stata la Regione siciliana, è il “governo di minoranza”, un modello contrario alla democrazia ma utile al mantenimento del potere. Il governo Lombardo ne fece un mezzo di salvezza e di durata, così come Crocetta sta adesso pensando di rifare. Assicurare la governabilità con una trovata di tale alchimia politica vale a formare governi, giunte o maggioranze non rispondenti ai valori espressi dal corpo elettorale, fondare partiti come schegge impazzite del tipo del Grande Sud di Micciché, aggregare all’Ars deputati eletti in liste anche di antitetica provenienza ideologica. 
Questa logica della commistione utilitaristica l’abbiamo vista all’opera, nei suoi effetti più estremi, la volta in cui l’allora governatore Raffaele Lombardo, nonché leader dell’Mpa, condizionò la sua scelta tra Centrodestra e Centrosinistra in base alle aperture di credito che il futuro governo nazionale avesse assicurato alla Sicilia: un’operazione meritoria sul piano politico ma scellerata dal punto di vista istituzionale e ideologico. Tale atteggiamento, che in sostanza configura un alto tradimento degli elettori, è diventato in ambito nazionale pratica consuetudinaria per stabilire alleanze di lista: come fece il Centrodestra che si divise in Polo della libertà e Casa della libertà secondo l’accordo al Nord con la Lega e al Sud con Alleanza Nazionale; e come oggi studia di fare Salvini intendendo rischierare il nuovo Centrodestra. 
Perseguire scopi ispirati al migliore bene politico col perpetrare atti fondati sul maggiore male possibile è una modalità tipica della maniera siciliana di fare politica come anche di condurre i rapporti di relazione: una strategia improntata al principio per cui - machiavellicamente, ma diciamo meglio: sciascianamente, pensando all’abate Vella - ogni fine legittima il mezzo impiegato per raggiungerlo. Rientra proprio in questa prospettiva la sconcertante iniziativa che qualche anno fa l’Assoindustria siciliana prese nei confronti dei propri iscritti: espulsi se succubi del racket e quindi resi due volte vittime. 
Cercare il bene facendo il male, secondo la visione che Paolo di Tarso ebbe dei primi cristiani, è il canone rovesciato con il quale la politica siciliana guida da sempre la propria iniziativa, rendendola al tempo stesso camaleontica e banausica. Un Gino Foti, patriarca a Siracusa della più catafratta Democrazia cristiana e oggi suggeritore più o meno occulto di ogni manovra del Pd, renziani compresi, appare il gran sacerdote di un credo politico nella cui sfera l’azione diventa agibilità, il bene tornaconto e il male atto necessario. Risponde a questa religio del peccato la tentazione recidivante di Crocetta di compiere il male massimo, la callida junctura con grillini o berluscones, così da ottenere il bene supremo della salvaguardia della sua “rivoluzione” (concepita peraltro grazie anche al disinvolto appoggio elettorale dell’Udc, sigla di dichiarata matrice democristiana) e del salvataggio del sacro e pur corrivo primato della volontà popolare. 
Il governo di minoranza, che si affida alla circostanza, alla fiducia estemporanea e raccogliticcia, che consolida la sua legittimità misurandosi sul tempo di durata, come un cowboy in un rodeo, ricorrendo giocoforza a ogni espediente pur di tenersi in piedi, non è che l’ultimo effetto collaterale della sindrome del doppio forno siciliano dentro il quale il bene e il male non osservano che lo stesso grado di cottura. Nella formulazione siciliana, il governo di minoranza a maggioranza variabile mutua oggi la stessa natura di quello di maggioranza a minoranza variopinta cui si addisse, caso storico e incipitario, la Giunta Milazzo, artefice Emanuele Macaluso: lo scopo di mettere in minoranza la Dc apparve prevalente rispetto allo scotto di un’alleanza del Pci con monarchici e fascisti benedetta poi anche da Togliatti, per modo che un fine politicamente legittimo e forse comprensibile fu conseguito con un mezzo del tutto esecrabile e deprivato di ogni forma di coerenza. 
Quando molti anni dopo Occhetto assicurerà a Sciascia che mai in Sicilia sarebbe potuto nascere un compromesso storico, trovando il più scettico e disincantato Sciascia, che di lì a poco sarebbe passato con i radicali una volta che il Pci avesse consumato il patto di fine legislatura con la Dc, intenderà indicare proprio un Fattore S per il quale le ragioni della governabilità, da ricercare a vista e a tentoni, nei modi dunque di un governo di minoranza, andavano affermate sul momento e sul campo a prescindere da accordi di lunga durata e stilati a tavolino. 
La precarietà di questa filosofia politica radicata in natura, storicamente documentata dall’attività dei governi regionali e dai giochi che presiedono alla formazione anche delle giunte comunali, che pure a due chilometri di distanza contano partiti schierati secondo opportunismo e contro se stessi, spiega lo stato di confusione, di inagibilità e di inettitudine, oltre che di immobilismo e dissipazione di risorse economiche e finanziarie, in cui versano ineluttabilmente gli enti territoriali in Sicilia. Nei penetrali dove se ne decidono gli assetti si opera ormai nel clima, autenticamente siciliano, dei Beati Paoli, decisi a fare il bene e convinti che il male commesso, di gran lunga maggiore e certamente non compensabile, non sia che una medicina amara e necessaria.


(Questo articolo è uscito su La Repubblica di Palermo)