Con l’intitolazione di uno slargo, Maria Occhipinti è stata in qualche modo ripagata del rifiuto che Ragusa le ha sempre opposto da quella mattina che nel 1945 provocò la rivolta dei “Nonsiparte” rendendosi un’estranea, una diversa rispetto al modello tradizionale e accettato di donna e di ragusana.
Straniera fu anche al Pci, che non le perdonò la partecipazione a una sommossa bollata, in un grande equivoco, come fascista inducendola a militare per tutta la vita nelle file anarchiche. Così l’anno scorso, nel ventennale della morte, a ricordarla sono stati solo gli anarchici, Pippo Gurrieri in testa, a iniziaitiva del quale è stata pubblicata finalmente la silloge di poesie inedite Anni di incessante logorio, quarto titolo, dopo Una donna di Ragusa, Il carrubo e altri racconti, Una donna libera, della produzione della scrittrice nata nel quartiere Russia di Ragusa, cacciata dalla sua città e costretta a girovagare per tutta la vita in più Paesi del mondo. Quattro anni fa un regista modicano, Luca Scivoletto, le ha dedicato un film biografico non a caso intitolato, echeggiando Georges Moustaki, Con quella faccia da straniera. E straniera lei stessa più volte si definì, forse anche a lei stessa, perché tutt’altra vita avrebbe voluto fare se uno spirito civile di umanità e dignità, maturato nella coscienza di una vinta, non l’avesse chiamata ad un dovere urgente nei confronti del mondo offeso.
Straniera fu anche al Pci, che non le perdonò la partecipazione a una sommossa bollata, in un grande equivoco, come fascista inducendola a militare per tutta la vita nelle file anarchiche. Così l’anno scorso, nel ventennale della morte, a ricordarla sono stati solo gli anarchici, Pippo Gurrieri in testa, a iniziaitiva del quale è stata pubblicata finalmente la silloge di poesie inedite Anni di incessante logorio, quarto titolo, dopo Una donna di Ragusa, Il carrubo e altri racconti, Una donna libera, della produzione della scrittrice nata nel quartiere Russia di Ragusa, cacciata dalla sua città e costretta a girovagare per tutta la vita in più Paesi del mondo. Quattro anni fa un regista modicano, Luca Scivoletto, le ha dedicato un film biografico non a caso intitolato, echeggiando Georges Moustaki, Con quella faccia da straniera. E straniera lei stessa più volte si definì, forse anche a lei stessa, perché tutt’altra vita avrebbe voluto fare se uno spirito civile di umanità e dignità, maturato nella coscienza di una vinta, non l’avesse chiamata ad un dovere urgente nei confronti del mondo offeso.
Dei libri scritti, nati dall’impulso a testimoniare la prova vita, Il carrubo e altri racconti è quello meno pervaso dal credo dell’impegno civile, costituendo un campione di undici racconti scelti tra le decine ai quali l’autrice non ha potuto rimettere mano. Quelli pubblicati nel 1993 da Sellerio, come gli altri rimasti inediti, sono più esattamente novelle la cui cifra è l’assoluta aderenza alla realtà, trattandosi di fatti accaduti personalmente all’autrice o a lei raccontati.
Qui Maria Occhipinti non è più quella di Una donna di Ragusa. Non indulge a pretese letterarie e non assume il suo mondo a pretesto per rappresentazioni icastiche, elusive della circoscritta realtà che è la sola a starle invero a cuore. Ma nello stesso tempo la Occhipinti non inclina alla ricostruzione storica e perciò non si lascia tentare né dal romanzo né dal saggio documentaristico. Il suo passo è il frammento e scegliendo la tecnica della mise en abyme ricompone, racconto dopo racconto, il grande mosaico di un’epoca, vista dalla place à table che è il mondo contadino, preoccupata sì di documentare, con tono para-giornalistico, la propria esperienza di donna à rebours, ma con un distacco e insieme un atteggiamento che ne fanno una fabula sospesa tra feerie e réverie.
La Occhipinti prescinde dai riferimenti di tempo e di luogo, dà ai suoi personaggi nomi fittizi e, pur mantenendosi legata alla verità dei fatti, fornisce una prova letteraria maggiore che non in Una donna di Ragusa - libro autobiografico, appesantito da troppi richiami cronachistici, dettato dalla motivazione quasi processuale di testimoniare i fatti, venato da un desiderio di denuncia che seppur ampiamente soddisfatto e condivisibile, soffoca i pur copiosi motivi letterari che si rintracciano laddove l’autrice si concede con un mano felice a descrivere, alla maniera verghiana il suo mondo.
A questo risultato l'autrice perviene compiutamente con Il carrubo, i cui racconti sono stati scritti dagli anni Sessanta in poi, quando ormai si è liberata dal senso di dovere che per anni l’ha obbligata ad adempiere al suo compito di donna permanentemente in guerra contro il sistema e si scopre capace di evocare il proprio mondo con una potenza descrittiva e suggestiva che le deriva dalla profonda conoscenza che ha di esso.
Qui la differenza che stabilisce con i maestri del Verismo. Ancor più di loro Maria Occhipinti trascorre quasi tutta la sua vita fuori dal Ragusa ma non ha bisogno di tornare a casa per cercare espressioni dialettali, proverbi, modi di dire, gerghi e tradizioni allo scopo di arricchire la propria prosa o impinguare il personale bagaglio di storie vere. Le basta richiamare alla memoria la sua giovinezza e disporre in rassegna, così come le ha conosciute, le tante persone che hanno popolato la sua vita: con i loro mali e la loro parlato.
Niente di più facile e di più felice per fare letteratura, alla maniera di Verga il cui riferimento è d’obbligo. Ma più di Verga Maria Occhipinti rimane fedele al suo canone. Non risulta infatti che abbia scritto nulla al di fuori di quanto sia in attinenza con il suo mondo contadino, la sua città natale e la sua giovinezza. Non ha d’altronde motivo di farlo. La sua memoria trabocca, essendo una miniera inesauribile di vite vissute. Basta leggere qualsiasi racconto del Carrubo: attorno a una figura o a un piccolo accadimento, Maria Occhipinti riunisce via via altri personaggi e innesta tranches de vie intessendo, con un uso accorto della digressione, una cosmogonia balzachiana nella quale un racconto rimanda a un altro, un personaggio a un secondo, per comporre alla fine una comédie humaine che è però un dramma checoviano e a volte una tragedia ibseniana. I racconti del Carrubo sono funestati dalla morte non meno che dalla miseria, pervasi come sono da un senso larmoyant dell’esistenza più umile. I contadini sono incatenati alla loro condizione di irredimibilità e nei massari, ma più ancora negli artigiani, vedono una classe a loro difforme se non ostile.
Non ci sono aristocratici e borghesi nella memoria della Occhipinti e quindi nella sua opera. Non ci sono nemmeno persone che non siano tutte tratte dal suo campionario di uomini e donne conosciuti nella Russia di Ragusa. Maria Occhipinti ha corso il mondo, ma non lo ha trovato rappresentativo e quindi non lo sa raccontato. Né vi ha mai fatto cenno, a eccezione di un racconto di una sola pagina, intitolato “Milano”, dove narra di essere stata spinta a buttare l’anello in un laghetto per dimenticare il suo passato, ma poi di esserci tornata ogni giorno e di essersi chiesta chi avesse preso il suo anello odoroso bizzarra.
Nel Carrubo la sola città nominata è Catania, rappresentata a una distanza siderale dal suo quartiere. Maestra di vita e quindi letteralmente significante è rimasta per lei la sua Russia, a parlare della cui civiltà si dismettono le ragioni per cercare motivi di insegnamento altrove e in altre epoche.
Esemplare è il racconto lungo che intitola la raccolta. La Occhipinti dice di esso in un’intervista del 1980, sedici anni prima della pubblicazione e diciotto dopo averlo scritto a New York: “È la storia di un quartiere popolare siciliano prima, durante e dopo la guerra. Soprattutto è la storia delle sue donne e di una di esse che esce dal paese per vedere cosa c’è fuori e scopre che la causa di tutti i mali non è l’ignoranza ma la corruzione degli intellettuali”.
La donna protagonista è Teresa, una figlia di contadini con i cui gli occhi la Occhipinti osserva come il mondo attorno al carrubo che è dietro la casa di Teresa si sta trasformando fino a diventare “un museo in cui ognuno conserva un caro ricordo”.
La felicità del quartiere contadino (con le sue secolari regole di convivenza spartana) viene rotta dall’arrivo degli artigiani, portatori di una cultura scandalosa, più liberale soprattutto nei rapporti interni alla famiglia. Teresa invidia la vita delle famiglie artigiane e matura un proposito dirompente: farsi infermiera senza maritarsi. Il padre è combattuto dal timore di violare le convenzioni sociali perché si trova di fronte al caso di “una signorina che conosce il mistero della nascita prima di sposarsi”, ciò che rappresenta un fatto inammissibile. Ma un professore, socialista come lui, lo fa ricredere nel convincimento che sia meglio nascere con gli occhi chiusi, rassegnati a non guardare il mondo circostante. Teresa è Maria Occhipinti che invece gli occhi ed è diventata infermiera sia pure a caro prezzo come Teresa.
Il racconto è anche un tapis roulant sul quale scorrono personaggi che per la loro autenticità risultano veri e perciò trasposizione di un mondo che per la Occhipinti è la sua Ragusa, anzi il microcosmo del quartiere Russsia rappresentativo di una condizione generale ed esistenziale. Un mondo che conosce benissimo. Nella distinzione che fa tra contadini, massari e artigiani, in quella che è una vera e propria lotta di classe dentro una sfera interamente proletaria, una guerra tra poveri, la Occhipinti ha dimostrato una capacità di osservazione e di analisi sociale che può ritrovarsi solo in Antonio Gramsci. Solo per questo il Pci a suo tempo e il Pd oggi dovrebbero sentirsi in grave torto nell’opera di demolizione fatta della sua memoria e della sua immagine di militante comunista e di teorica delle dinamiche socio-economiche, uno studio peraltro compiuto con l’esercizio della letteratura.