giovedì 12 giugno 2025

Abbiamo perso il futuro, ci rimane solo il presente


Yuval Noah Harari, celebrato storico e saggista israeliano, autore del bestseller Sapiens. Da animali a dei, così scrive nel successivo e altrettanto fortunato saggio del 2015, Homo Deus: “All’alba del III millennio, il risveglio dell’umanità è accompagnato da una stupefacente constatazione. La maggior parte delle persone di rado ci riflette, ma da qualche decennio siamo riusciti a tenere sotto controllo carestie, pestilenze e guerre. Di sicuro questi problemi non hanno ancora trovato una soluzione definitiva, ma da incomprensibili e incontrollabili forze della natura sono stati trasformati in sfide che possono essere affrontate. Non abbiamo bisogno di pregare alcun dio o santo che ce ne liberi. Possediamo infatti conoscenze sufficienti riguardo a ciò che occorre per prevenire carestie, pestilenze e guerre – e di solito riusciamo nell’intento”. Mai previsione è stata così infelice, giacché le cose sono andate esattamente al contrario.
Cinque anni dopo sarebbe arrivata la più grande pandemia degli ultimi secoli e per effetto di essa avremmo assistito a una forte riduzione e distribuzione di cibo nel mondo che avrebbe aggravato situazioni di carestie endemiche in aree quali Corno d’Africa, Sahel, Yemen, Sud Sudan e Madagascar. Ancora altri due anni e sarebbe scoppiata la guerra in Ucraina, cioè in Europa. Dopo che in Sapiens ci aveva spiegato da dove veniamo, in Homo Deus, sottotitolo “Breve storia del futuro”, Harari pretendeva di dirci dove stiamo andando, ma rivelando di non averne idea.
La previsione del futuro è ricercata dagli uomini molto più che la conoscenza del passato, che oggi ha valore statistico. Sin dall’inizio dei secoli ci sono stati più profeti, indovini, maghi, divinatori, oracoli, fattucchiere, cartomanti, sciamani e stregoni che ricercatori, archeologi, studiosi e storici. Del resto l’elettore non vota forse un parlamentare ricandidato sulla base di quanto promette piuttosto che su quanto ha fatto? La risposta ce la dà Luis Stevenson in Robinson Crusoe: “Gli uomini regolano le loro azioni non tanto sui benefici ricevuti quanto sui vantaggi sperati”.
Interessa in genere ciò che succederà più che quanto è successo. Il perché è evidente: il passato, a differenza del futuro, non può nuocerci né favorirci. Giova per valutare i precedenti degli eventi che hanno determinato il presente. Ma neppure il futuro sarebbe dannoso se fosse deterministico e potessimo conoscere gli effetti delle cause che il passato ha messo in essere e il presente reitera: non potrebbe in sostanza crearci né timore né speranza. È l’incognita dell’avvenire che ci tiene infatti in ansia e in attesa.
Di qui ogni pratica mantica per sterilizzare il mistero del domani. Spinoza era del parere che l’uomo si avvicini a Dio quanto più abbia bisogno di fortuna e riconduceva la fede nel più prosaico ambito della superstizione. Poneva in sostanza una domanda fondamentale: se conoscesse il futuro, l’uomo avrebbe bisogno di Dio? Di qui un'altra domanda: Dio vieta forse a Adamo ed Eva di mangiare i frutti dell’albero della conoscenza proprio per impedire loro di potersi liberare di lui?
La fede è stata la sola via concessa da Dio perché l’uomo potesse riporre fiducia nel futuro affidandosi alla sua grazia. Ma la fiducia nel futuro ha subìto un pesantissimo colpo dalla fisica quantistica che agli inizi del secolo scorso ha posto le basi per la teoria della probabilità e della casualità: il mondo cambia stocasticamente e gli effetti dati dalla fisica della materia sono di tipo random, frutto di eventi non prevedibili e del tutto accidentali. A questo colpo se n’è aggiunto un altro, a minare le certezze dell’uomo nell’ubi consistam: la scoperta di essere dominato dall’inconscio come forza prevalente sulla coscienza e l’autodeterminazione. Il nostro inconscio ci dice cosa fare e svuota la nostra volontà attentando alla stabilità intellettiva.
Questo nuovo indirizzo scientifico ha fatto dell’uomo, come profetava Heidegger, un essere “gettato nel mondo”, in balia di rivolgimenti che non può né prevedere né controllare. Se perciò il mondo ubbidisce alla legge dell’indeterminazione, il futuro non è più neppure immaginabile. Può essere solo vagheggiato. Ci pensò il Futurismo a preconizzarlo, esaltandone la portata nei termini di un modernismo che doveva servire non tanto a darci il progresso quanto a rassicurarci circa le nuove possibilità offerte alla visione del domani.
Ma intanto nelle lettere il Decadentismo avvalorava l’angoscia dell’uomo solo e lavorava all’idea dell’inetto déraciné, nello stesso tempo in cui l’Esistenzialismo si interrogava in filosofia sullo stato di precarietà dell’uomo e sul senso da dare all’esistenza.
Lo sradicamento violento e concomitante dalla realtà ha poi portato all’Astrattismo nell’arte, al Postmoderno nella narrativa, allo Spiritualismo e alla Fenomenologia nella filosofia: tutte forme di una deriva che ha tolto il futuro dalle possibilità dell’uomo, che si è trovato non più affidato al determinismo razionale ma alla sola fede religiosa. Di qui la paura della vita e la spinta a conoscere meglio la morte, con cui cominciare a fare i conti non secondo calcoli anagrafici ma sulla base di un evento incombente e improvviso.
Il nuovo epicureismo che ha invaso l’Occidente, votato al più vivo edonismo, è la conseguenza di una perdita: quella del futuro. La pandemia, piombata sull’umanità a ciel sereno come una piaga biblica, ha moltiplicato questa sindrome collettiva dello smarrimento e del disorientamento, tale da dover essere esorcizzata rimuovendola anche dalla memoria storica.
La nuova attenzione che i maggiori quotidiani danno ai temi della salute, descrivendo malattie e fornendo rimedi; l’impulso di un numero crescente di personaggi famosi che rivelano le malattie di cui sono affetti; l’interesse comune per le scienze, fra cui non ultima la psicologia; l’incremento del consumo di farmaci contro depressione e ansia; la spasmodica apprensione per i mutamenti climatici che presagiscono un futuro insostenibile; la propensione di molti giovani a chiudersi in un isolamento da nerd e farsi hikikomori; lo stesso calo demografico dovuto anche alla riduzione del desiderio sessuale e al timore di infelicitare i propri figli; il decremento delle vocazioni sacerdotali e dei cattolici praticanti: sono tutti indici di una nuova coscienza sociale che ha ridotto al solo presente, quanto più contingente, la scala di valori da osservare.
Quanto al passato, se valeva come maestro di vita, oggi è visto come disfunzionale, dal momento che in discussione è proprio la vita quanto al futuro anche immediato. Hanno perso interesse i romanzi e i film apocalittici e fantascientifici che hanno preso non a caso la definizione di “distopici”, mentre guadagnano spazio i generi horror, fantasy e disforici. Romanzi come quelli di Felicia Kingsley e serie Tv quali Russian Doll e Outlander propongono ritorni al passato in controtendenza al gusto che negli anni Ottanta si affermò piuttosto con la trilogia Ritorno al futuro
Tornare indietro assicura più punti di riconoscibilità e identità che andare avanti nel domani dove tuffarsi come ad occhi chiusi senza avere contezza esatta del posto. Piuttosto che sognare, la preferenza invalente è quella di ricordare, ma la volontà induce a vivere nel proprio presente, cogliendo l’attimo e godendo della vita come se fosse l’ultimo giorno. Ed ecco l’escalation di crimini tipici di chi non teme la condanna giudiziaria futura: aggressioni in branco, volenze sessuali di gruppo, femminicidi atroci, truffe temerarie, corruzioni sfrontate, ma anche suicidi compiuti o tentati per cause non tali da generarli. C’è un eccesso negli atti dell’uomo che è pari alla violenza dei fenomeni climatici estremi. Non era così fino a dieci anni fa.
L’uomo non ha mai avuto un futuro, è vero, ma lo ha sempre tenuto presente e progettato, quasi che fosse una grandezza reale. Lo stesso ha fatto ai suoi primordi. Ci dice ancora Harari che l’homo sapiens, cioè il nostro progenitore, ebbe ragione su tutti gli altri “umani”, a cominciare dai Neanderthal, grazie alla capacità di immaginare esseri inesistenti, quindi futuribili e avveniristici, come nel caso della statuina di uomo con la testa leonina trovata trentaduemila anni fa in una grotta tedesca: realizzando la figura in avorio, la resero vera e la poterono anche raccontare come una presenza che sarebbe stato possibile incontrare. In futuro.
Oggi lo stesso homo sapiens è rimasto senza futuro e quindi senza la facoltà di narrarlo. “L’uomo è narratore” diceva Ortega y Gasset e ha poi detto Umberto Eco in Lector in fabula. Oggi lo è sempre meno., mentre prevale sempre più il sentimento del presente, nella consapevolezza che tutto può succedere solo sul momento: il quale non è narrabile ma testimoniabile e soprattutto da vivere, anzi meglio da subire.
Vivere nel solo presente significa tenersi sempre all’erta, essere inquieti, temere il peggio. Non si teme di poter morire, ma di morire. A questa altezza si incontrano ancora Ortega y Gasset, secondo il quale è l’uomo è la sua circostanza, e Miguel de Unamuno per il quale il sentimento tragico della vita nasce dalla coscienza del proprio contesto, ovvero del presente. Se l’uomo perde il futuro, perde la capacità di progettare e riduce la propria intelligenza a mero intuito, l’ambizione a migliorarsi a lotta di sopravvivenza.
In questa chiave, rimanendo il solo presente come realtà esperibile, il futuro mutua la sostanza della fede, per cui si invoca Dio per avere non la felicità - o la letizia come la chiama la dottrina della salvezza - ma la fortuna, che è la prima arma del demonio.