mercoledì 26 dicembre 2018

L'uomo che urlava alle ciminiere


Oggi è come se Marina di Melilli non fosse mai esistita. C’era su un muro diroccato di una casa demolita la scritta “Marina risorgerai” ma non è stato così. Non ci sono più muri né case. Né ci sarà il villaggio turistico di cui si è parlato anni fa dopo che erano successe due cose: il sogno dell’industrializzazione si era infranto sulla spiaggia inutilmente sacrificata alle ciminiere e d’estate, nonostante i divieti, i bagnanti erano tornati come a presagire il recupero della zona ritenuta fino agli inizi del secolo la più inquinata della Sicilia. I bagnanti sono diventati sempre più numerosi e la zona è stata ripulita dopo essere stata rasa al suolo. Ma è impossibile che possano tornare i fenicotteri rosa e il mare essere restituito alla sua purezza. I paraggi sono di notte diventati ritrovo di omosessuali e meta di coppie in cerca di emozioni forti con singoli e altre coppie. Un tempo la zona era detta “da questa parte della linea” intendendo i binari della Ferrovia che separano la spiaggia dove vivevano, in un paesino fornito anche della chiesa, mille abitanti: un paesino sorto pressoché abusivamente come “marina” di Melilli e Priolo, e che già vagheggiava l’autonomia quando agli inizi degli anni Settanta cominciarono ad arrivare le prime proposte di accordo bonario come indennizzo a quanti lasciavano le loro case per fare posto alle raffinerie.
Moltissimi accettarono di andare via e dopo dieci anni rimasero in meno di 200, poi solo in sei famiglie irriducibili, tutti decisi in gran parte ad alzare i prezzi. Ma fra loro ci fu chi non accettò nessun rialzo e non volle sentirne di andare via. Si chiamava Salvatore Gurreri, ricordato come l’ultimo degli abitanti di Marina che resistettero alle industrie. Viveva con la sola moglie, la nipote del “prefetto di ferro” Cesare Mori e già senatrice eletta a Milano, la sua città, in una casetta bianca a sette metri dal mare e teneva la sua Alfa Romeo verde davanti alla porta e gli arnesi da pesca nel retro.
Disse no fino a quando la moglie si ammalò gravemente e fu costretta a tornare nella sua Milano per essere ricoverata e dove Salvatore, a 84 anni, decise finalmente di trasferirsi, non trovando più senso nell’ostinazione a rimanere da solo e rinunciare a stare vicino alla sua Elisabetta. Il 18 giugno 1992, pochi giorni dopo aver preso la decisione di abbandonare la battaglia ventennale contro le industrie, in circostanze che non sono mai state chiarite, il suo corpo fu trovato incaprettato nella sua macchina, cosa che fece pensare a un omicidio di mafia o quantomeno su commissione. L’inchiesta giudiziaria arriverà a supporre che la tecnica mafiosa dell’incaprettamento era stata semplicemente il modo escogitato dai suoi assassini per farlo entrare nel bagagliaio dell’Alfa Romeo. Si parlò di omicidio per rapina da parte di due o tre balordi e si arrivò a dire che i banditi si erano impossessati di 300 mila lire o di 500 mila: particolare che non si capisce come gli inquirenti possano avere stabilito.
Sette anni dopo una giornalista catanese, Roselina Salemi, che a lungo si era occupata del caso, scrisse un romanzo, Il nome di Marina, raccontando la storia di Salvatore che è diventata oggetto anche di un monologo teatrale tratto dal libro. La memoria di questo martire-eroe, simbolo della tutela ambientale, non è stata altrimenti ricordata. Né della sua vita si sa molto. Quel che si sa è che fu consigliere comunale e che da bambino vide in mare una sirena, scoperta che ribadirà fino a tarda età. Che fosse Lighea, la sirena vista da Rosario La Ciura nelle acque di Augusta e raccontata da Tomasi di Lampedusa? Qualunque cosa avesse visto Gurrieri, è comunque certo che vide un mare pulitissimo.