Dopo trentacinque e nel giorno della sua uccisione è forse il caso di uscire dallo spirito celebrativo nel quale nemmeno Giuseppe Fava avrebbe voluto trovarsi, ancor più quando diventa autoreferenziale, come indulgevano nel 2014 Antonio Roccuzzo per il trentennale in un docufilm trasmesso da Raitre e l’anno scorso uno sceneggiato di Raiuno.
A non volere storicizzare le emozioni, facendone un fuoco perpetuo sull’altare dell’eccezionalità e dell’irripetibilità, si rischia di distorcere la storia e rendere un cattivo servizio a una figura di giornalista che pure non ha pari nella storia siciliana per talento, indipendenza intellettuale, coraggio e prestazione professionale.
In questa prospettiva, sostenere che “I Siciliani” hanno guardato per primi dentro le viscere della mafia significa innanzitutto ridimensionare i risultati di autori come Michele Pantaleone, Leonardo Sciascia, Mauro De Mauro, Danilo Dolci, Giuseppe Impastato, Francesco Renda, Henner Hess, Mario Puzo, Ernest Hobsbawn e tanti altri venuti vent’anni avanti, a ridosso della prima Commissione antimafia: che hanno svelato e raccontato l’oggetto oscuro che era la mafia in tempi in cui ben poco si sapeva della sua portata ancor prima che della sua natura. Né ci sarebbero mai stati “I Siciliani” senza l’opera di scrittori, studiosi, giornalisti e militanti che, allo stesso tempo, furono gli ispiratori prossimi anche di quella grande scuola di giornalismo, venuta pure essa molto tempo prima, che è stata “L’Ora”, non a caso tribuna antimafia di Sciascia come di Vincenzo Consolo e altri.
Cosa diversa è invece considerare l’iniziativa di Fava nell’ambito di una società, quella della Sicilia orientale, dove l’insorgenza mafiosa è vista come una nebulosa autonoma rispetto a Cosa nostra: almeno fino a Dalla Chiesa, che riprendendo intuizioni di Falcone paga con la vita lo smascheramento di uno stretto legame fin lì soltanto supposto. “I Siciliani” nascono quando si scopre che Catania è “la stessa cosa” di Palermo e si pone la questione di chi debba farlo sapere in un momento in cui l’intera informazione locale tace se non addirittura opera per ridimensionare o sconfessare gli effetti della scoperta stessa. Il fatto assolutamente nuovo proposto da “I Siciliani” è proprio la determinazione a divulgare notizie che sono note e appena sussurrate.
Appunto perché già note alla stregua di voci di piazza, le notizie circa l’implicazione di poteri forti, collusioni esplicite, latitanze dorate, nomi impronunciabili si distinguono quanto al metodo più che al loro contenuto: anziché denunciata, la mafia viene infatti raccontata, con l’uso di strumenti prevalentemente letterari. La rivista è quanto di meno giornalistico si possa immaginare, abbondando gli aggettivi e gli avverbi, l’uso della prima persona, la considerazione personale, la soggettività, in totale dispregio quindi delle regole della professione che raccomandano impersonalità e distacco. Questo armamentario stilistico la rende un foglio militante e perciò temuto.
Fava non è un giornalista d’inchiesta, né un reporter. È un raffinato romanziere di tipo sciasciano che conosce così profondamente la sua terra da poterne immaginare ogni dinamica, anche la più tralignata. Quando scrive di Palma di Montechiaro come roccaforte emergente della mafia rimane attratto non dai ceffi che vede in giro in sembiante di mafiosi ma dalla bellezza dei bambini che scopre tra i rigagnoli delle strade sterrate: e quel che restituisce è un indimenticabile saggio sulla bruttezza mafiosa che contamina la bellezza siciliana. Il suo tono è sempre icastico, fortemente letterario, di grande presa. “I cavalieri dell’apocalisse” è solo uno dei suoi titoli entrati nell’indice della nuova storia di Catania.
In questo clima in cui il resoconto cede al racconto, gli articoli si chiamano “storie” e l’inchiesta diventa testimonianza, dove il reportage è l’occasione per aggiungere un capitolo alla controstoria della Sicilia, è inevitabile che i ragazzi di Pippo Fava imparino a scrivere come lui ed è facile che si sentano protagonisti del loro tempo e che dopo il 5 gennaio 1984 si credano degli eroi e come tali propensi a considerarsi tali anche dopo.
Se quella straordinaria esperienza non fosse stata funestata dall’uccisione del suo artefice, avremmo oggi celebrato, com’è stato per la scuola di Nisticò, non una guerra ingaggiata da impavidi ragazzi di una siciliana Via Pal, ma una stagione – del tutto nuova in Italia – nella quale la mafia è stata affrontata a colpi di racconti letterari, con il bello scrivere e uno spirito tutto settecentesco ma moderno pamphlet. Certamente non sarebbe comunque piaciuta a Fava l’idea di aver creato un commando di paladini più di quanto avesse potuto compiacersi di aver insegnato a un manipolo di intraprendenti ventenni, poi divenuti quasi tutti scrittori, che aveva ragione Sciascia a indicare nella letteratura il mezzo per dire la verità. E in realtà fu proprio questa la prima eredità raccolta il giorno dopo il delitto.
L’immagine più sincera è infatti nell’editoriale de “I Siciliani” firmato da tutti i ragazzi dopo il 5 gennaio. Niente di più letterario nella sua conclusione: «Dobbiamo ricominciare a lavorare, mica possiamo tirarci indietro con la scusa che è morto uno di noi. Se qualcuno vuole darci una mano ok, è il benvenuto, altrimenti facciamo da soli, tanto per cambiare. Va bene così, direttore?». Pippo Fava è davvero tutto qui, nelle parole dei suoi ragazzi appena orfani. Sognatori, idealisti, intraprendenti, coraggiosi, mossi da uno statuto giornalistico affatto proprio. La loro è stata la più bella primavera di Catania. Che però deve dichiararsi chiusa.