Il recupero del cosiddetto “anello di Theano” (o forse Teano o ancora Teanò) da parte del Museo regionale di Agrigento più che risolvere un caso ne apre uno nuovo. I dirigenti del Museo ritengono che l’anello, riconsegnato dalla famiglia del primo possessore che lo prese all’insaputa di tutti, faccia parte del contenuto del sarcofago trovato nel 1871 insieme con un epitaffio e attestato al terzo secolo dopo Cristo. Il sarcofago avrebbe custodito le spoglie di una ragazza – e conservato un anello forse della stessa fanciulla – alla quale la madre avrebbe dedicato le parole incise nella lastra di marmo: “Agli dei sotterranei. Theano visse 19 anni, 2 mesi, 12 giorni. La made Sabina alla figlia vergine pura dolcissima”. Questa la traduzione proposta dal Museo. Si sarebbe quindi trattato di una famiglia di culto pagano la cui prova deriva dall’iniziale invocazione agli dèi ctoni, ipotesi questa avvalorata dalla presenza sull’anello di motivi – chicchi e spighe di grano – che farebbero pensare a Demetra (Cerere nel terzo secolo) il cui culto già in età greca fu in Sicilia molto diffuso, tanto da farla ritenere una divinità autoctona promanazione della dea sicula Ibla.
Sempreché accettiamo che la traduzione proposta dalle autorità museali agrigentine sia corretta; che anello, sarcofago e iscrizione facciano parte dello stesso blocco archeologico; che l’intero complesso risalga al terzo secolo d.C.; e che il seppellimento non sia opera di una famiglia cristiana ma di fede pagana, viene fatto di avanzare alcune questioni. La prima riguarda il nome della ragazza: in età greco-romana non ricorre un nome proprio femminile – né maschile – che corrisponda a Theano o Teano. E’ molto frequente invece questo nome nella cultura cristiana e ancora di più in epoca bizantina, quando ritroviamo più Teodosio, Teodosia, Teofane, nomi greci la cui etimologia è chiara in una logica monoteista ma non si spiegherebbe invece entro un’accezione politeista, mentre il termine Teano, toponimo di un’antica città campana, si scioglie solo nel significato di fortezza, impraticabile nel pensiero romano come metafora di una persona forte di spirito.
E’ possibile che la traduzione corretta dell’intero rigo dell’epigrafe, teanoezeoen, sia un’altra? In verità appare chiaro che il verbo “visse” sia da leggere ezesen declinato da zao. Ma allora da dove viene il nome Theano, se la trascrizione è corretta? La risposta è utile per sciogliere l’intero rebus. Il Museo accredita una concezione pagana, ma rimane da chiedersi perché l’iscrizione sia in greco e non in latino quando, nel terzo secolo della nostra era, anche in Sicilia il latino non era solo la lingua comunemente parlata ma cominciava ad essere anche quella scritta in certe classi sociali pure della Sicilia occidentale non greca – e quella agrigentina in questione sembra, per il pensiero espresso nell’incisione, che fosse alquanto elevata.
Una risposta è forse in ciò, che a continuare a scrivere e parlare greco erano nel terzo secolo, anche in Sicilia, solo i cristiani che più degli altri avevano conosciuto il pensiero di San Paolo, di passaggio a Siracusa, letto le sue epistole e ingaggiato un aspro confronto con la parte giudaica del cristianesimo parteggiando a favore di quello ellenico. Senonché l’attribuzione a un ambito pagano del ritrovamento si vale non solo del fatto che la madre “Sabina” (nome certamente romano, tuttavia tratto con molta libertà giacché la parola intera è cabeina, sempre ammesso che la lettera iniziale sia un sigma lunato e che il dittongo stia per una “i” lunga) avrebbe dettato quelle tenere parole d’amore rivolgendosi agli dèi sotterranei, giusto l’acronimo TK (teois katactoniois), ma si vale anche della presenza di chicchi di grano intarsiati sull’anello che rimanderebbero a Demetra, dea certamente della fertilità e della rinascita. Ma la spiga di grano è ancora di più un elemento proprio del vangelo cristiano dove ricorre numerose volte come segno di resurrezione. Basti Giovanni, due volte ripreso da Dostoevskij nei Fratelli Karamazov proprio per sostenere tale interpretazione: “Se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane infecondo; se invece muore produce molto frutto”.
La questione principale è dunque di stabilire se dobbiamo sentirci davanti a una testimonianza pagana o cristiana. La traslitterazione fatta dal Museo nella trascrizione del testo si presta ad alimentare qualche altro motivo di perplessità: l’espressione amo lunto non va separata in due parole ma unita e sta per “immacolata”; la parola glukutate significa “carissima” prima che “dolcissima” e segnala quindi un rapporto di parentela molto stretto che in realtà non avrebbe motivo di essere specificato se si trattasse della figlia, ma che appare invece opportuno nel caso in cui sia stata la nipotina a morire, cioè la figlia della figlia: le parole tu gatri, trascritte anch’esse separatamente, vanno invece unite e stanno appunto anche per “nipotina”.
Ma a questo punto è lecito chiedersi perché la nonna, o la madre che sia, ha bisogno di ripetere che la ragazza è morta immacolata e vergine. Secondo una suggestiva teoria che gli studiosi del Museo non hanno valutato, la reiterazione del concetto nasconde un preciso proposito, un atto di fede per la precisione. La donna che detta l’epitaffio è mossa, da fervente cristiana, dall’intento di esprimere il proprio dolore per la perdita di una “immacolata vergine”, tanto carissima da potere stare al pari della Vergine celeste. Questa supposizione induce a pensare a una famiglia cristiana di buon ceto, segretamente nicodemica ma apparentemente osservante dei precetti pagani. Studi più attenti potrebbero darci risposte definitive.