lunedì 24 giugno 2019

Camilleri e la morte priva di sacralità



Il tema della morte in Andrea Camilleri (che ora si trova faccia a faccia con essa come il cavaliere Antonius Block di Bergman in una decisiva partita a scacchi) è centrale e ricorsivo nella sua opera: non solo nel ciclo di Montalbano dove la morte è insita nel giallo, ma anche nella produzione storico-civile, da La strage dimenticata a Le pecore e il pastore, romanzi solo nei quali i decessi si contano a decine.
Ma qual è il rapporto dello scrittore con la morte? Da ateo appare di naturalità, la morte rientrando nel ciclo della vita. C’è di questa visione una sua dichiarazione ufficiale in un’intervista nella quale disse: «Ogni tanto ci penso e ogni tanto no. In teoria più si invecchia e più ci si pensa. Non ci trovo niente di straordinario: quando hai comprato il ticket della nascita ti dicono “guarda che nel prezzo è compreso quello della morte”. Ci penso semmai con molto rammarico, perché mi mancheranno tante cose. Ma non ho paura. Leggevo Il Fedone di Platone, dove è affrontato il tema della morte di Socrate. Il quale beve la cicuta e si incupuna. I discepoli piangono quando lui chiama Critone. Tutti pendono dalle sue labbra: “Senti, mi sono scordato di dirti che dobbiamo restituire un pollo”. E si rincupuna. “Ma come, maestro, mi dici solo questo?”. “E che ti devo dire?” gli fa Socrate. Non è bellissima come preparazione alla morte? Sinceramente, non ne sono terrorizzato. Certo, è una faccenda estremamente spiacevole, “disdicevole” la sentii definire da John Gielgud. Come reagirò? Francamente non lo so, credo che lo saprò solo al momento giusto».
Sperando che il momento giusto non sia ancora giunto – e se lo fosse, è molto probabile che Camilleri non saprà, essendo in coma farmacologico, come reagirà – è nella sua opera che va cercata qualche risposta circa la sua religione laica sulla morte e in particolare nel suo personaggio più importante, il commissario Montalbano. Il quale ha invero il terrore della morte. Nel romanzo La luna di carta il suo umore diventa angosciante. Oltre il pensiero mattutino che lo assilla («quando viene il giorno della tua morte»), anche la sola idea lo costringe a fare subito qualcosa per distrarsi. Generalmente una doccia fredda. «Un segno di vecchiaia» spiegava Camilleri. «Quando si è vecchi il pensiero della morte è assai più frequente che in gioventù. Ma, come diceva il poeta, “è il pensiero della morte che infine aiuta a vivere”. Nella cultura siciliana la morte è in linea di massima sempre presente, tanto da non destare soverchia paura. Ma Montalbano, sicilianissimo, ne è invece terrorizzato. Con tutta evidenza, appartiene a quella minoranza di siciliani che non ha una normale paura, ma una paura eccessiva, maniacale».
Montalbano ha il terrore della morte al punto da non riuscire ne Il ladro di merendine ad andare al capezzale del padre morente. La verità gliela dice in faccia un professore di filosofia, Liborio Pintacuda: «Lei nel caso del cane di terracotta lasciò un’inchiesta sul traffico d’armi per concentrarsi su un caso di cinquant’anni fa solo per scappare dalla realtà di tutti i giorni. Questa realtà quotidiana le pesa troppo. E lei scappa. Ecco perché non va a trovare suo padre morente».
Invece di andare dal padre, Montalbano compra un cartoccio più grande di semi abbrustoliti e se ne va al molo a pensare e soprattutto a piangere. La sua paura della morte è la paura di vedere morire, non sopportando la vista dei moribondi. E’ una sindrome che dunque ha attinenza più con la vita, con la sua quotidianità, della cui realtà fa parte appunto anche la morte. E’ qui che Camilleri e Montalbano si incontrano nello stesso punto di vista. L’autore che dice che della vita fa parte anche la morte è lo stesso commissario che scappa dai moribondi per non affrontare la quotidianità. La considerazione che il commissario ha della morte si rifà in sostanza a uno ius naturalis che è il solo al quale egli presta giuramento. Tant’è che, in Il cane di terracotta, arrivato a dare del tu a “Tanu u grecu” sul letto di morte, vince la sua angoscia rivolgendogli parole che ha sentito dire al capitano Bellodi di Sciascia: «Non ti vergognare di avere paura di morire. Anche per questo tu sei un uomo».
La paura di morire e dunque la paura di vedere morire integra una concezione materialistica della morte che si trova sin nel primo titolo della serie, La forma dell’acqua, dove quando il questore Burlando osserva che qualsiasi morte ha la sua sacralità, il commissario oppone un cardine della sua visione della vita, talché nella morte egli non riesce a vedere invece niente di sacro, ma solo l’oggettività dell’evento. L’idea la ritroveremo precisata anche in un racconto di La paura di Montalbano intitolato “Meglio lo scuro”: quando il commissario capisce che la novantenne Carmela Spagnolo è morta davanti a lui, non si fa prendere dalla sua inconscia paura dei moribondi perché non vede né la «solenne sacralità» né «la sua quotidiana, orrenda, televisiva dissacrazione», ma «semplicemente e naturalmente» la morte come deve essere.
Si tratta di un tema che ha una radice profonda e complessa in Camilleri. In una intensa poesia del 1948, intitolata “Tempo”, l’autore è già convinto, benché poco più che ventenne, che la morte abbia un significato reificato: «Non c’è più un tempo per nascere e un tempo per morire / si nasce e si muore nello stesso momento / infinite morti ci assediano / è l’ora che ognuno raccolga in sé la morte degli altri». Nei successivi settant’anni di vita Camilleri non ha cambiato visione delle cose, legato a una coerenza che fa apparire quei versi giovanili un sorgivo testamento spirituale che oggi va in esecuzione: l’invito a farsi carico, morendo, della morte altrui. C’è materiale di riflessione per intravedere in tale messaggio uno spirito cristiano. Chi vuole può vederci anche una croce.