giovedì 30 dicembre 2021

Il divino Raffaello che non piace a Sgarbi

 


Articolo già apparso su Letteratitudine

Così come la rivoluzione scientifica si compie nel Seicento, quando Galilei invita ad alzare la testa al cielo distogliendola dai libri di Aristotele, anche nell’arte – ma un secolo prima – si ha un analogo rivolgimento culturale dopo che Giuliano da Sangallo, incaricato da papa Giulio II, induce a guardare non in alto, ma in basso, anzi sottoterra, e nel gruppo scultoreo dissepolto nel 1506 a Roma identifica Laocoonte grazie alla descrizione che ne fa Plinio il Vecchio in Naturalis historia. La storia dell’arte nasce dunque con una scoperta archeologica che segna il momento in cui il sapere libresco diventa una fonte di informazioni utile a riconoscere un monumento attraverso l’osservazione, una ekphrasis, cessando di essere la forma di conoscenza unica e assoluta circa l’arte greca, il modello imperante di riferimento nell’Umanesimo e nel Rinascimento. Ma occorrerà ancora del tempo prima che sia considerata uno studio comparato, se nello stesso Cinquecento Giorgio Vasari illustrerà la seconda edizione delle sue Vite con immagini non di opere d’arte ma di artisti, reiterando una storia di pittori e scultori epperò non dell’arte, giacché ancora viva è l’idea di creazione artistica intesa come arte non liberale bensì meccanica, mestiere manuale e non professione intellettuale.
Espressione ultima di questa visione multidisciplinare e comparativistica dell’arte è oggi in Italia certamente Vittorio Sgarbi, forse insuperabile nel rintracciare rimandi e richiami tra un’epoca e un’altra, tra scuole e artisti diversi. Il suo ultimo libro, Raffaello. Un Dio mortale (La nave di Teseo, pp. 360, euro 22), più che altro un capitolo della sua lunga “Storia dell’arte” costituita invero nei modi di una vibratile e originale controstoria, risponde proprio allo spirito rivoluzionario sorto in quella stagione, il Rinascimento, che ha ereditato sì dal Gotico internazionale e dall’Umanesimo l’inclinazione delle corti a scambiarsi artisti e fare commistione di generi ma che, pur senza arrivare al superamento della “maniera” vista come specialità della bottega e segreto del maestro, getta tuttavia le basi per la nascita di gusti nazionali come quello fiammingo, italiano, asburgico, borgognone. 
Lo studio dell’arte – e perciò la sua storia – sottende appunto la capacità di distinguere le diverse temperie mercé le opere (il “capolavoro” nasce con il Laocoonte che darà il via all’idea di museo) e non i loro autori, talché prende piede proprio nell’epoca che al critico ferrarese è non a caso particolarmente cara oltre che nota. Sicché Raffaello, dopo le monografie dedicate a Parmigianino e a Leonardo, arriva nel repertorio di Sgarbi a coronare una personale ricerca (aspettando a questo punto Antonello da Messina) condotta intorno alla più fulgida età della nostra tradizione artistica ed esercitata nella specie di un atto dovuto nonché di un riconoscimento definitivo e ufficiale tributato a un artista che se è tutt’oggi il primo negli “affetti”, come il Rinascimento chiamava le emozioni, per Sgarbi non è però il primo della classe.
Sgarbi infatti non ama Raffaello, tant’è che scrive: «Nutro una profonda diffidenza verso Raffaello. Capisco che è un genio, ma appunto perché è un genio mi mette in difficoltà. Preferisco Piero di Cosimo a Raffaello. Sono perverso? Sì, lo sono”. E più avanti, precisando «Ho manifestato il mio antagonismo concettuale nei confronti di Raffaello», dichiara di preferire anche Ortolano, un artista rinascimentale minore ancor più di Piero di Cosimo e imperfetto alla stessa stregua. 
Senonché è proprio nell’idea di perfezione che vanno ricercate le ragioni della diffidenza di Sgarbi, secondo un principio ben specificato da uno studioso francese, Édouard Pommier – «La grandezza della pittura non consiste in un’impossibile ricerca di un’inarrivabile perfezione» -, il quale ne fa uso guarda caso per determinare lo sguardo di Giovanni Santi nei confronti dell’opera d’arte: motivo per cui Sgarbi si ritrova a condividere con il padre di Raffaello la stessa concezione dell’arte, che riesce tanto più ammirabile quanto più sia imperfetta, ciò che vuol dire realistica, giacché la Natura perfetta non è mentre Raffaello lo è sino a suscitare irritazione e magari “antagonismo concettuale”.
Un indizio per cogliere la posizione di Sgarbi è offerto dai sottotitoli utilizzati nei libri su Raffaello, “Un Dio mortale”, e su Leonardo, “Il genio dell’imperfezione”, dove, mutuando Giorgio Vasari, assimila il primo a una divinità, necessariamente perfetta, ma riserva l’attributo di genio all’artista che è invece naturaliter imperfetto. Ne deriva che nei dipinti dell’urbinate non si sentono gli odori delle figure ritratte e dei paesaggi, né si vedono i difetti fisici che sono di ogni uomo e di ogni luogo, mentre in Leonardo anche le rocce attorno alla Vergine e il sorriso della Gioconda sentono della mimesi di tipo aristotelico, ovvero della verosimiglianza. 
In Raffaello i volti, le posizioni e gli atteggiamenti dei personaggi sono troppo belli per essere veri, troppo canonici, come in posa da studio, privi di ogni gesto scomposto e di ogni espressione spontanea che sia un sorriso, una smorfia o un segno di dolore, tale che ogni movimento può apparire affettazione, trattandosi di figure tutte solenni, severe, da dirsi inespressive se non fossero anzichenò perfette; ma nulla davvero hanno del grande senso di realtà presente in un antecedente di Raffaello (appena richiamato da Sgarbi come confrére di Piero della Francesca e soprattutto di Giovanni Bellini) qual è Antonello da Messina, la cui sfortuna è stata di non essere entrato nella Cappella Sistina, come è invece capitato a Raffaello, che lì dentro – nota Sgarbi – ha scoperto Michelangelo e mutato in “una maniera nuova” il suo stile finalmente più mosso.
Eppure Raffaello ha guardato eccome ad Antonello, ripetendone per esempio gli sfondi lacustri e nella Madonna Cowper richiamando il gesto del Bambino che introduce la mano nel seno della Madonna: a voler riflettere anche il gusto italiano nella luce unilaterale e non più diffusa secondo il modello fiammingo e rimanere tuttavia “ponentino” come Antonello nella posa talvolta a trequarti dei ritratti, nel declinante fondo nero e nella ricchezza dei dettagli. Ma niente c’è delle figure contorte del messinese, dei suoi volti sfigurati, dei Cristi dolenti e sanguinanti e dell’effet de réeel di certe espressioni come dal vero e di numerosi Andachtsbild, le immagini devozionali uguali ai moderni “santini” che Raffaello non ha adottato se non in alcuni ritratti privati, preferendo nelle sue Madonne lo sguardo non rivolto all’osservatore ma di tipo “narrativo”.
Il Raffaello più riconoscibile è piuttosto nella perfezione del canone e nel rispetto degli insegnamenti ricevuti da Piero della Francesca, il maestro ideale quanto alla prospettiva e da Perugino, il maestro reale quanto al disegno e al colore, secondo la precisazione di Sgarbi: un atteggiamento il suo che tuttavia non gli ha precluso una certa influenza anche fiamminga, giacché da ragazzino ha certamente avuto modo di vedere nella sua Urbino le opere del belga Giusto di Gand, ospite del principe di Montefeltro e autore di una Pala del Corpus Domini che in qualche modo echeggia quella che Sgarbi indica come motivo ispiratore della sua estetica futura e cioè la Pala Montefeltro di Piero, dello stesso 1472 e ugualmente rivoluzionaria nell’assunto di uno “spazio senza precedenti” chiamato “sacra conversazione”, elemento che pure compare nella tavola di Gand: senonché Raffaello è dalla pala italiana che si lascia sedurre anziché da quella straniera, facendo così una scelta che dominerà la sua intera produzione.
Oltre che l’eccesso di perfezione, può tenere Sgarbi a una certa distanza da Raffaello la circostanza, storica e artistica, che ha fatto dell’autore della Scuola di Atene il Rousseau del suo tempo, per modo che come il filosofo chiude l’Illuminismo e traghetta la cultura europea nel Romanticismo, allo stesso modo l’artista regola i conti con il Medioevo e presagisce la Modernità. In lui spariscono quasi del tutto luminescenze, parapetti, rigorosi sfondi neri, intarsi, pavimenti arabescati, leggii mentre appaiono i segni di un gusto che arriverà ai giorni nostri. Sgarbi, che nell’arte ama il “meraviglioso” (l’aggettivo in lui più ricorrente) purché capace di cogliere il vero o il verosimile, in coerenza così con un teoria antifrastica che può rintracciarsi in ben pochi artisti (uno è proprio Piero da Cosimo), ha scorto in Raffaello prodromi che portano persino a Picasso, Klimt e de Chirico, stabilendo senza dirlo che il suo genio è soprattutto nella forza di dialogare più con gli artisti a lui futuri che non quelli passati, pur tenendo sempre fermo il suo sguardo all’età classica, al punto da proporsi a papa Leone X per una ricostruzione dell’antica Roma nella sua esatta topografia.
È certamente il Raffaello che procede verso l’avvenire mentre tiene la testa rivolta indietro quello che convince di più Sgarbi, che impegna infatti l’intero libro nello sforzo, mirabile e riuscito, di fissare le coordinate dell’artista anche ben al di fuori del suo tempo, sicché troviamo sorprendenti e comprovate analogie con opere non solo di Piero della Francesca, Perugino, Leonardo, Giorgione, Carpaccio, Bellini, artisti contemporanei, ma anche di pittori futuri, da Tiziano a Caravaggio, da Ingres a Guido Reni a Pietro Bembo e molti altri.
«Raffaello crea uno stile perenne – scrive Sgarbi – che non tramonta, che si incardina nei primi vent’anni del Cinquecento e si ripercuote e si riproduce nel corso dei secoli successivi». Guardano a lui e acquisiscono la sua maniera artisti come Correggio e Tiziano, che diventa raffaellesco proprio quando vede Raffaello. Lo saranno un po’ tutti e per sempre, al punto che raffaellesco diventa sinonimo di “soave, intenso, espressivo”, perfetto: proprio di un “Dio mortale”, ma con poco di umano.
Questo ultimo titolo di Sgarbi si raccomanda allora per il portato di una ricerca che dà a Raffaello quanto gli spetta e gli nega nello stesso tempo quanto gli è stato concesso in sovrappiù dalla storia. Sembrerebbe quasi che uno degli artisti più conosciuti e studiati debba essere riscoperto, non perché sia ridimensionato ma per essere riposizionato in un nuovo contesto e probabilmente in una diversa luce.