sabato 3 giugno 2023

Onorevole non significa agiato


Nella Grecia del 411 a. C. il proposito di abrogare l'indennità riconosciuta a quanti ricoprissero cariche pubbliche dovette passare attraverso un provvedimento di legge preventivo circa l'abolizione delle accuse di illegalità che ogni cittadino poteva intentare a un magistrato. L'idea era che la libertà di proporre anche le leggi più impopolari fosse pagata dagli eletti con la gratuità del loro mandato.
La legge sull'immunità al prezzo dell'indennità durò ben poco, il tempo che gli oligarchi cadessero e fosse ripristinata la democrazia. La quale reintrodusse il titolo oneroso del mandato elettorale rafforzando così il principio della rappresentanza attiva. Sembra in effetti paradossale che a volere la gratuità dell'incarico pubblico non fu il partito democratico ma quello oligarchico, per vocazione sempre tentato dalla tirannide ed esso stesso di tipo dispotico. Ma paradossale non è nel convincimento che la rappresentanza attiva può realizzarsi in funzione dell’indipendenza economica.
Gli oligarchi supponevano, a ragione, che rendendo non onerosa ma solo gratificante la carica pubblica, che richiede impegno e costanza oltre che mezzi economici, ne rimanessero esclusi quanti si trovassero nell'impossibilità di lavorare senza guadagnare e di dover spendere per giunta di tasca propria, cosicché soltanto i magnati di Atene avessero l'agio di accedervi. I democratici volevano perciò che chi governasse o facesse parte di un Consiglio o di una magistratura venisse retribuito così da potersi "mettere in aspettativa" e dedicarsi alla polis e al bene comune. Senonché nelle Supplici di Euripide l'araldo chiede come possa il povero, "quand'anche non ignorante, occuparsi della cosa pubblica impegnato com'è in altre occupazioni per vivere?".
Questa logica contrapposta è arrivata fino a noi dopo un periodo nel quale, in ambito di rappresentanza democratica, il parlamentare esercitava gratuitamente il suo mandato tanto da essere chiamato "onorevole" perché prestato alla politica con l'impegno dei suoi beni. E certamente un incentivo a ricoprire cariche politiche è dato dalle pingui indennità assicurate ai parlamentari, tanto da dover supporre che riducendole il numero degli aspiranti politici si assottiglierebbe proporzionalmente mentre si accrescerebbe il rischio di ricatti e tentativi di corruzione. Questa è almeno la tesi, vecchia quanto la democrazia ateniese, dei sostenitori del mandato retribuito, secondo l'equazione per cui quanto più è retribuito tanto più l'eletto è reso libero. 
I fatti hanno però largamente dimostrato che tale regola non si applica sempre, se corruzioni e concussioni si ripetono indipendentemente dall'ammontare dell'indennità. Anzi pare valere la regola contraria per cui quanto più alta è l'indennità tanto più diffusa diventa la corruzione, perché chi ha più mezzi ha anche più manovre.
L’onorabilità che era un’attribuzione di merito e una qualità è oggi diventata quindi una qualifica di stato sicché "onorabile" è sinonimo di "onorevole", una condizione cioè attuale e non potenziale, da conseguire. Con la degenerazione dell’esercizio di tale potere, la qualifica di onorevole ha via via assunto una connotazione con un’accezione negativa additando una classe, quella politica, riconosciuta come un esempio da non indicare alla paideia civile. Invale in essa la considerazione sempre più diffusa che sia ambita e invidiata non per l’onore che concede di servire lo Stato, ma per il privilegio che assicura di una cospicua rendita economica associata a un considerevole esercizio del potere personale. Per questa via è inevitabile che anche lo Stato sia visto alla stregua degli onorevoli in una posizione di superiorità che permette a ogni governo di esercitare il diritto di imporre tasse, a volte odiose e ingiuste proprio nello stesso spirito disonorevole delle indennità parlamentari.
Estremo ma significativo il caso di Basilio II, imperatore di Bisanzio: non tollerò che i sudditi di umili condizioni non pagassero le tasse e quando non poté più applicare nemmeno il principio della responsabilità collettiva in base al quale l'insolvenza di un contadino gravava sul vicino del villaggio, tenuto a pagare per lui, decretò che fossero gli aristocratici a corrispondere per i poveri l'allelengyon, la tassa dei contadini, nulla importandogli che non ci fossero figure più elitarie dei nobili ma contando solo sul fatto che potessero farlo. 
Fu un atto di sperequazione sociale e una prepotenza dettata dalla sete di denaro, ma ottenne di sollevare i poveri e di introdurre un criterio di solidarietà umana. Ora, se fosse recuperato lo spirito originario della carica pubblica, nel senso della sua onorabilità, nessuno penserebbe che fece bene l’imperatore levantino a tartassare i nobili, ma nell’attuale stato di cose l’idea che gli “onorevoli” debbano pagare per gli indigenti rende conducente la soluzione trovata dall’imperatore orientale, giacché gli aristocratici si sono ridotti al pari dei contadini di Bisanzio mentre gli onorevoli hanno preso il loro posto.
Si potrebbe altrimenti prendere esempio dall'antica Atene, dove era lecito l'apragmon, cioè l'atteggiamento di tenersi distanti dalla politica, come pensò di fare Euripide, ma era altrettanto lecito a un qualsiasi cittadino di chiedere l'antidosis, cioè lo scambio: imporre a un osservante dell'apragmon un incarico politico e avere il suo patrimonio in caso di rifiuto. In sostanza si potrebbe mandare qualcuno non a lavorare, come si usa oggi gridare ai politici, ma a fare politica volontaria, servire cioè lo Stato. Ma non funzionerebbe.