domenica 29 ottobre 2023

La guerra privata di Bufalino combattuta in ospedale


Nel cinquantenario della Liberazione, il 22 aprile 1995 pubblicai su La Sicilia un’intervista a Gesualdo Bufalino che ricordò quei giorni vissuti in sanatorio legati al 25 Aprile. Scelsi di stendere il testo eliminando le domande e facendo dell’intervista una sorta di monologo.
«Quando tutte le notti ritornavo a sentire lo stesso suono, di un viandante solitario che a mezzanotte in punto fischiettava per conciliarsi gli spiriti della notte. Tempo dopo, trovata quella canzone in un disco, avrei saputo che era Beguin the beguin. Nel mio letto di esilio, escluso dalla gioia della liberazione, il senso della pace ritrovata, della vita nuova che si riavviava (anche se non per me, perché credevo di essere condannato a morte), lo feci mio ascoltando un passante fischiare sotto le finestre. E immaginavo notti di luna pensandomi fuori dall’ospedale. Ricorda Il dì di festa? “E alla tarda notte un canto s’udia per li sentieri lontanando morire a poco a poco già similmente mi stringeva il core”. Un canto che Leopardi sente dalla sua stanza del palazzo di Recanati e io da una sala d’attesa della morte.
«Epperò, sulla base di una mia lettera ad Angelo Romanò, lei ipotizza che trascorsi il 25 aprile del ’45 nella… biblioteca dell’ospedale di Scandiano. Allora diciamo meglio che mi trovavo in un letto dell’ospedale di Scandiano, con la possibilità di usufruire di un’enorme biblioteca, proprietà del primario che si chiamava Biancheri, un uomo colto al quale può essere accostato il mio Gran Magro. Eravamo diventati amici perché amava fermarsi al mio capezzale conversando di lettere. Negli scantinati dell’ospedale, dove (per sottrarli ai bombardamenti ponendoli sotto la protezione di una grande croce sul tetto) Biancheri aveva trasferito i suoi libri, io m’avventuravo ogni giorno tra altissime e instabili pile. E traendo libri accatastati alla rinfusa, lessi Proust secondo il volume che mi era più comodo raggiungere.
«Sì, fuori c’era intanto tempesta. Durante i nove mesi di degenza, come da un osservatorio privilegiato, ebbi modo di assistere all’ultima fase della guerra, con il suo corredo di ferocie, eroismi, tradimenti, solidarietà. Dal novembre del ’44, quando mi ammalai di tisi, fino al 25 aprile rimasi, siccome costretto in ospedale, tagliato fuori dalla realtà. Ma, nei giorni della liberazione, fra le stecche delle persiane, scorgevo i primi carri armati alleati procedere fra le acclamazioni d’una gente stanca di vedere morire. Vennero a trovarmi, fra gioiosi clamori, i miei amici ch’erano stati sui monti: portavano al collo grandi fazzoletti rossi, indossavano fantasiose divise militari, imbracciavano armi troppo pesanti per le loro stazze macilenti e fameliche. A ripensarci, la mia fu una guerra non di movimento, ma di posizione. Ricordo che nel lettino accanto al mio, dopo un attentato di partigiani a un convoglio tedesco, un giorno fu portato un soldato colpito ai polmoni, Trascorse la notte rantolando e fumando, finché morì. Era tedesco e per lui avrei scritto più tardi una poesia, Requiem per il nemico ignoto che troverà nel mio L’amaro miele. Eh sì, erano tempi senza cuore.
«Avevo un amico. Si chiamava Carabillò ed era palermitano, come il medico che per primo si era accorto della mia malattia e aveva comcinciato a curarmi. Questo Carabillò agiva da partigiano in città. Fu scoperto, torturato, fucilato, lasciato cadavere in una piazza di Reggio Emilia, nella neve per tre giorni, a mo’ di esempio dissuasivo e tremendo, impendendo alla fidanzata di seppellirne anche i resti. Della fidanzata conoscevo la sorella minore che, venendo in ospedale, mi fu testimone dell’episodio. L’avevo conosciuta in casa sua, dove mi ero rifigiato una sera per scampare alla ronda fascista. Che anno terribile il ’44!
«Io stavo in una fattoria fuori Scandiano, in un posto che si chiama San Ruffino, ospite di una famiglia che aveva un figliolo come me clandestino. Una notte, attraverso i vetri, vidi i tedeschi circondare la casa. Cercammo di scappare attraverso una stalla che dava sui campi, ma appena aperta la porta, tre soldati che custodivano il varco ci spararono addosso. Rientrammo in casa non so come illesi. Aspettammno in silenzio l’irruzione, ma, dopo le raffiche di mitra e ordini secchi, i tedeschi si allontanarono. L’indomani seppimo che era stata un’esercitazione, la simulazione di un assalto a un caposaldo di partigiani. Fummo fatti salvi dallo spirito prussiano di obbedienza: loro dovevano recitare una parte e non ebbero la prontezza, che avrebbe avuto un soldato siciliano, di pensare che, invece di partigiani finti, quei due in fuga, che eravamo noi, potessero ben essere fuorilegge veri. Ci adoperarono come comparse del loro film: ci neutralizzarono sparandoci pallottole a salve, colpendoci e considerandoci morti.
«Ricordo che fu in quel periodo che andai a cena in un posto lì vicino dove fui preso dalla Guardia nazionale e portato davanti a un comandante per rispondere della mancanza di documenti che non fossero il congedo provvisorio falsificato soltanto del quale ero provvisto. Il comandante si rivelò siciliano, persona anziana e buona, e facendo scattare la molla d’una complice consanguineità, mi mandò libero raccomandandomi di non farmi trovare. Ma furono le Brigate nere sul punto di trovarmi, quando davanti a una trattoria vidi macchine ferme e una sentinella di guardia. Mi buttai nella polvere e ristetti tremante per oltre due ore. Le Brigate nere mi ricordano un mio alunno, cui davo lezioni private. Un giorno non venne più. Seppi che s’era fatto tentare dalle sirene della Repubblica sociale e temevo che potesse denunciarmi. Fu fucilato dai partigiani. Aveva sedici anni.
«E di una ragazza della stessa età, figlia di un oste, ricordo i giochi e i balli con me. I partigiani avevano fatto saltare un ponte e i tedeschi, accusando l’oste di complicità, bruciarono con i lanciafiamme la sua bettola uccidendo tutta la famiglia, la ragazza compresa. In Diceria dell’untore l'ho chiama Sesta, evocando una ragazza che vidi morire. Ma Sesta in realtà era una con cui me la intendevo. Già, di brandelli di vita ho guarnito i miei libri. In Calende greche immagino per esempio di trovarmi in una casa di campagna con un amico e una ragazza. Quando lui deve partire per una missione partigiana, lo vedo allontanarsi e capisco che non tornerà più. Lo scenario nei miei scritti è rimasto reale e nomi mi affiorano alla mente: Giorgio Prodi, fratello dell’omonimo economista, che devo aver conosciuto infante tra un bombardamento e l’altro; Valentina che suonava il piano; Fausta Cagliari, sempre vestita di bianco, fanciulla assai bella, cui non ebbi mai modo di rivolgere la parola, ma che di recente, leggendo un mio libro, mi ha scritto una lettera, ormai nonna felice e nostalgica; e Giovanna Poli, che mi fece leggere Moby Dick e molto mi fu vicina in ospedale.
«Le dicevo della fattoria di San Ruffino. Era ospite, sfollato da Reggio Emilia, nientemeno che il direttore del giornale reggiano "Il solco fascista". Egli venne inevitabilmente a conoscenza della condizione mia e del mio amico, per cui eravamo in allarme perpetuo: ma confidavamo nella supposizione che i fascisti più compromessi cercassero testimonianze che provassero una loro acquiescenza verso i liberatori. Per interposta persona ci fece capire di essere a giorno della nostra situazione e purnondimeno ci fece sapere che ci sarebbe stato un rastrellamento tedesco. Le dirò: era un fascista buono. Come del resto buono fu il provveditore agli studi di Reggio Emilia, che era di Comiso e si chiamava Casaccio. Era un famoso fascista, amico di Biagio Pace, e proteggeva gli sbandati, tanto più che consentì a me, immagini un po’, di insegnare senza laurea in una piccola scuola statale. Per la verità Casaccio mi conosceva già da prima della guerra, quando avevo vinto un concorso nazionale per un tema in latino bandito dall’Istituto di studi romani che prevedeva un vincitore per ogni regione. Io avevo conseguito il primo premio in Sicilia ed ero stato ricevuto nel ’39 da Mussolini. Casaccio si mostrò buono a dispetto della mia evidente condizione di antifascista reale, dacché avrei aderito alla Repubblica di Salò anziché mettermi in una situazione di estremo pericolo. Infatti l’ultimo bando mi imponeva, come sottotenente uscito dal corso allievi ufficiali di Fano, la consegna immediata. IL rischio era di essere deportato in Germania o di essere passato per le armi. Casaccio fu poi processato e poté giovarsi anche della mia testimonianza per essere graziato e continuare la sua carriera fino a diventare provveditore agli studi a Catania.
«Come divenni ufficiale? Fu per caso. Può scommettere che sarei finito in Jugoslavia come caporale semplice se non avessi risolto un indovinello di cui trova traccia in Diceria dell’untore. Ricorda i tre ladroni e i cinque cappelli, tre bianchi e e due neri, l’abacadabra del Gran Magro? Un indovinello cinese molto sottile, converrà. Ebbene, durante una marcia il tenente ce lo sottopose, sicuro che nessuno l’avrebbe spiegato. Io invece ci riuscii, sicché lui mutò opinione non vedendomi più come un inetto. Ma l’uso delle armi mi rimase sempre impossibile. Pensi che durante un’esercitazione pretesi di sparare con l’otturatore aperto, il che pare sia quanto di più deprecabile possa fare un soldato. Uno degli ufficiali se ne accorse e si mise a gridare. L’indomani, durante la lezione teorica, lo stesso ufficiale ricordò l’episodio e invitò il responsabile a farsi riconoscere, ma io rimasi ben zitto e nascosto. Davvero non riuscivo a compere l’abc del militare, come montare e rimontare un fucile mitragliatore. Escogitai allora di fare come i più bravi, che si bendavano armeggiando alla cieca. Così, quando l’ufficiale si avvicinava per controllare, mi trovava bendato e, vedendomi indaffarato, mi esortava a lasciare perdere i virtuosismi, ma, giacché insistevo per riuscirvi, se ne andava convinto che, anche se non alla cieca, ero certamente capace di rimontare un mitragliatore.
«Le stavo parlando del direttore del "Solco". Ebbene, quando ci disse di un imminente rastrellamento, che invece poi non ci fu, io non potei che scappare a Scandiano, dove ero stato in pensione nella casa della fidanzata di Carabillò. I genitori mi ospitarono, ma per paura dei bombardamenti notturni, andarono fuori paese lasciandomi da solo con le figlie, decise invece a rimanere in casa. E sa quelle ragazze cosa mi chiesero? Di ballare. Già. Accesero la radio e ballammo, mentre io ero in preda a una paura indicibile. A un certo punto bussarono addirittura i militari della ronda italiana che sentendo la musica pensarono a una festa cui potere prendere parte.
«Eh, le mie notti d’allora! Ho sempre avuto il sospetto di essermi ammalto per il freddo preso aspettando appuntamenti notturni. Ma questo avveniva a Sacile, dopo l’8 settembre. C’erano tante ragazze lì e io non avevo di che coprirmi. Aspettavo la mezzanotte per qualcuna di loro, messo nei fossi sotto i platani, mentre una cappa di gelo calava sulla terra coprendo erbe e mine. Un giorno mi colse la febbre e intrapresi la mia seconda guerra, stavolta contro i bacilli d Koch. Quanti compagni in pigiama caduti! Ricordo le sere quando i cadaveri venivano trasportati in una sala mortuaria e nella mia stanza arrivava un odore che non riuscito a distinguere, finché non mi fu detto chiaro cos’era. Sa, credo proprio che non sopravvisse nessuno di quanti conobbi.
«Con il 25 aprile persi tutti gli amici, che tornarono a casa. In compenso ritrovai i miei genitori che vennero in ospedale, attraversando l’Italia su un camion e spendendo tutti i loro risparmi. Si persuasero che fossi spacciato. Capirà quindi che, nelle mie condizioni, il 25 aprile significò anche riabbracciare i miei che temevo di non vedere mai più. Ora lei mi chiede cosa furono in definitiva quegli anni per me. Fu un’esperienza che mi segnò profondamente nel fisico e nel morale. Appresi nei giro di due anni l’esistenza della morte, l'insensatezza delle guerre, il valore della solidarietà umana al di là delle barriere di lingua e di costumi: appresi certi sentimenti estremi, che mai avrei pensato dovessero essermi familiari: la fame, la paura. Appresi l’invidia. L’invidia per i sani, i padroni insolenti e lieti del loro corpo, coloro che potevano usarlo liberamente per amare, per combattere, per resistere. Ecco, non so se sono alla fine riuscito a farle capire cosa sia questo cinquantenario per me».