venerdì 3 novembre 2023

Alla ricerca degli "uomini persi" di Baglioni


La poesia è nel rapporto fulminante tra brevità di espressione e grandezza di rappresentazione. Più immagini suscita, ancor più se vivide, più liricità assume, se però vale la proporzione inversa per cui meno parole sono usate e più effetti si ottengono. Crocianamente, la poesia è più in un verso che in una strofa, perché essa è intuizione, ovvero sentimento immediato ed emozione istantanea, pari a un lampo che illumina per un attimo il cielo della conoscenza.
In questa chiave, la canzone italiana che più di ogni altra nella storia della musica leggera può essere considerata di pura poesia (caso rarissimo, perché la “canzonetta” è sempre mimetica e anche quando presenta testi di forte suggestione formale non fa poesia ma bella prosa, come nel caso del Nobel Bob Dylan) è Uomini persi di Claudio Baglioni, brano dell’album più venduto di sempre, La vita è adesso, uscito nel 1985, quando l’autore romano ha trentaquattro anni. La canzone è talmente poetica, cioè di difficile intuizione, che viene posta nel vasto repertorio baglioniano (dove non figura mai nel cosiddetto “meglio”) in posizioni succedanee rispetto a più facili interpretazioni quali Questo piccolo grande amore, La vita è adesso, Avrai, Mille giorni di te e di me, Strada facendo, che hanno avuto senz’altro ben maggiore successo.
Forse altre due sole canzoni meritano lo stesso titolo: Prospettiva Nevski di Franco Battiato e – a un grado inferiore - La notte dei miracoli di Lucio Dalla, la prima dello stesso 1985 e l’altra di cinque anni prima: a suggello di una stagione che ha dato la migliore e unica produzione lirica melodica italiana, ciò per ragioni che varrebbe indagare, giacché coincise con un’epoca ricordata oggi del riflusso e poi dell’edonismo, epperò capace di fruttare esiti non più replicati. Ma entrambe le canzoni non hanno la stessa forza e uguale tenuta di Uomini persi, benché ne ripetano il modello inteso a ridurre al massimo (anche questo un segno del tempo) il ritornello che è padre del tormentone, se non lo elimina del tutto come fa Battiato, segno chiaro che i cantautori non ricercavano il motivo ma il tema, indice di una precipua intenzione lirica.
Già nello stesso album di appartenenza, Uomini persi costituisce una variabile indipendente perché non assimila il vivace ritmo pop rock che connota la svolta di Baglioni di metà anni Ottanta. E a differenza della linea avviata sin dagli inizi del decennio volta alla ricerca del privato, dell’amore individuale perso e ritrovato, della vita di quartiere, di fronte ai rivolgimenti politici anche di piazza dai quali Baglioni invita a rifuggire per scegliere il disimpegno contro l’impegno ereditato dagli anni Settanta, il testo si offre come una lamentazione civile ed umanistica del tutto sottratta a ogni temperie contingente per farsi visione totalizzante della dimensione umana, compresa nel teorema di equivalenza per cui qualsiasi uomo, anche il peggiore e il più sfortunato, è stato bambino e come tale ha condiviso e vissuto le stesse esperienze di ogni suo coetaneo, spunto che porta ad ammettere come sia la vita nel suo farsi e disfarsi a dividere e distanziare quanti sono stati invece uguali e insieme, partiti dalla stessa condizione ma via via perduti nel mondo. Ed ecco l’esistenzialismo di Heidegger nella sua teoria dell’esein, “l’essere gettati nel mondo”, e la poetica di Pascoli fondata sull’idea del fanciullino che è in ciascuno di noi e che rende gli uomini uguali davanti alla vita e tra loro stessi.


L’argomento non è quello rilanciato negli stessi anni da cantautori come Vasco Rossi (Vita spericolata) e prima ancora da Rino Gaetano (Non te reggae più) nonché il Battiato di Centro di gravità permanente, che cantano la contrazione individualistica nel proprio privato entro una forma di escapismo che escluda dal tempo corrente, ma investe sollecitazioni ontologiche che scavalcano il tempo per essere ucroniche, tali che ancora oggi, dopo quasi quarant’anni, sentiamo Uomini persi una canzone ancora nostra.
Il fanciullino che è in noi, quello che ispira il nostro sentimento poetico, ci ricorda una verità: l’ineluttabilità della vita come freccia del tempo diretta a colpire il cuore dell’innocenza e del candore originari entro una deflagrazione di esistenze diverse, disparate, irreversibili. Ma Baglioni nel testo cela una seconda verità, soffusa e laterale, che sembra fare da palinodia: da adulti si è quanto si è stati in nuce da bambini, anzi da monelli: chi scoperchia e distrugge formicai diventerà da grande un uomo senza scrupoli che ucciderà impietosamente; chi farà lo spacciatore di droga ha smerciato da bambino figurine di calciatori ma anche segreti; chi traffica armi ha giocato da piccolo con le pistole finte. Baglioni ci dice insomma che la vita è stocastica, imprevedibile nei suoi svolgimenti, ma può rivelarsi anche deterministica, frutto di un rapporto di causa ed effetto.
“Dove sono i giorni di domani, le caramelle ciucciate nelle mani di tutti gli uomini persi dal mondo” canta l’autore per stabilire infine la verità che sta in mezzo: una superba metafora (e di metafore è ricco il testo, in risposta al credo della più genuina poesia) per legare il bambino all’adulto che sarà e nella cui veste rimarrà dunque com’era, succhiandogli nelle mani le caramelle, dopo però aver posto un interrogativo, centrale nel brano come nello spirito di esso - “dove sono i giorni di domani” - che agisce nello stesso momento in funzione di punto di separazione e non di identificazione tra età infantile e matura.
Il refrain “di tutti gli uomini persi dal mondo, di tutti i cuori dispersi nel mondo”, dove il mondo nel significato di vita più che di diaspora è prima soggetto e poi oggetto, ricorre due volte e in entrambi i casi a indicare un folgorante corto circuito tra ieri e oggi, bambino e adulto: il “papà che caccia via la notte di tutti gli uomini persi”, come il bambino che ciuccia le caramelle nelle mani di sé adulto, chiude a parti invertite il testo in una visione irrelata e metafisica che restituisce il senso di una epifania della vita come nastro di Möbius nel quale l’orientamento torna iniziale solo dopo un percorso extra ordinem
E proprio questa duplicità polindromica fu espressa dal cantautore a Pippo Baudo nel 1985 durante la trasmissione “A serata d’onore”, dove Baglioni disse che «le canzoni sono sempre per tutti gli uomini che il mondo ha perso e che perde ogni giorno», aggiungendo in senso contrario che «tutti da bambini hanno sperato che un giorno migliore li aspettasse».
Rimane perciò la domanda di fondo: la vita ce la costruiamo noi o ci viene data secondo criteri imperscrutabili e impronosticabili? Si è sempre fanciullini o si è gettati nel mondo? In sostanza, si è Cebete, che nel Fedone di Platone chiede a Socrate di parlargli in modo da non spaventare il fanciullo che è in lui, o si è Oreste, preda di una ananké che ribalta le premesse della sua vita?
L’età dell’innocenza diventa quella della sua perdita, conseguenza di un destino o di una colpa. Alle immagini di spensieratezza e di gioia della fanciullezza si sovrappongono in un frenetico rimando di echi scene di una maturità dolente e desolata. Baglioni, passato con La vita è adesso dalle estenuazioni romantiche all’impegno sociale, esclude nella sua genealogia che possano esserci uomini felici e sembra volere stabilire il principio, quale che sia la fanciullezza, che l’età matura non può che essere di rovina. 
Troviamo dunque un rifacimento capitale del soterico mito dell’infanzia e della giovinezza che ha scaldato il secondo Novecento letterario, così come il romanzo di formazione: al fondo della vita non c’è il lieto fine o la ricomposizione dell’ordine cosmico guastato, bensì la perdizione, per colpa della stessa vita che non concede salvezza alcuna. Il più nichilista e pessimista dei testi di Baglioni (rivariato nel tempo più volte quanto al sound, da pop-rock a ballata ritmica) è anche quello che si offre di più a un’interpretazione della stagione postneorealista italiana degli anni Ottanta nel senso di una dissipazione della vita, in linea con gran parte dell’opera di Pier Vittorio Tondelli, primo esegeta di quel periodo, e di film crudi e distonici come Mery per sempre. Ma tentiamo intanto una lettura del testo che tenga conto dei significati letterali per poi vedere meglio quelli figurati.


TESTO DELLA CANZONE

Anche chi dorme in un angolo pulcioso coperto dai giornali, le mani a cuscino, ha avuto un letto bianco da scalare e un filo di luce accesa dalla stanza accanto, due piedi svelti e ballerini a dare calci al mare nell'ultima estate da bambino. Piccole giostre con tanta luce e poca gente e un giro soltanto.

Anche questi altri strangolati da cravatte che dentro la ventiquattrore portano la guerra sono tornati con la cartella in braccio al vento che spazza via le foglie del primo giorno di scuola. Raggi di sole che allungavano i colori sugli ultimi giochi, tra i montarozzi di terra e al davanzale di una casa senza balconi, due dita a pistola.

Anche quei pazzi che hanno sparato alle persone bucandole come biglietti da annullare hanno pensato che i morti li coprissero perché non prendessero freddo e il sonno fosse lieve. Hanno guardato l’areoplano e poi l’imboccano e sono rimasti così senza inghiottire né sputare, su una stradina e quattro case in una palla di vetro che a girarla viene giù la neve.

E anche questi cristi caduti giù senza nome e senza croci sono stati marinai dietro gli occhiali storti e tristi, sulle barchette coi gusci delle noci. E dove sono i giorni di domani, le caramelle ciucciate nelle mani di tutti gli uomini persi dal mondo, di tutti i cuori dispersi nel mondo.

Quelli che comprano la vita degli altri vendendogli bustine e la peggiore delle vite hanno scambiato figurine e segreti con uno più grande, ma prima doveva giurare. Teste crollate nel sedile di dietro sulle vie lunghe e clacsonanti del ritorno dalle gite, un po' di febbre nei capelli ed una maglia che non vuole passare.

E i disperati che seminano bombe tra poveri corpi come fossero vuoti a perdere, come se fossero pupazzi, seduti sui calcagni han rovesciato sassi e un mondo di formiche che scappava, le voci aspre delle madri che li chiamavano sotto un quadrato di stelle dentro i cortili dei palazzi e la famiglia a comprare il cappotto nuovo e tutti intorno a dire come gli stava.

Anche questi occhi, fame di nascere per morir di fame, si son passati un dito di saliva sui ginocchi e tutti dietro a un pallone in uno sciame, leggeri come frecce e dove fanno a botte, dov'è un papà che caccia via la notte di tutti gli uomini persi dal mondo, di tutti i cuori dispersi nel mondo.

INTERPRETAZIONE SEMANTICA

Anche il barbone rannicchiato in un angolo infestato di pulci, coprendosi con giornali e tenendo le mani a cuscino, ha avuto da bambino un letto pulito (sul quale salire a fatica per via della statura) in una stanza dove sotto la porta filtrava una calda lama di luce rivelatrice della presenza di persone care e accudenti. E ha giocato a mare in un giorno d’estate preludio della fine dell’infanzia, nonché da solo e appena con un gettone in una giostra di periferia.

Anche i mercanti di armi inamidati in abiti scuri che nelle loro borse custodiscono contratti di vendita tornano con la memoria al primo giorno di scuola quando con la cartella sotto braccio andavano incontro al vento di ottobre che spazza le foglie così come disperde un’età nella quale il tramonto cala sugli ultimi giochi infantili all’aperto, praticati mimando i pistoleri del West, in cima a cumuli di sassi e dietro le finestre di case di campagna.

Anche i killer e i criminali più spietati sono colti dai pensieri nutriti da bambini quando immaginavano che i cadaveri fossero coperti per proteggerli dal freddo cosicché il sonno eterno fosse più riposante. E hanno guardato i genitori mentre li imboccavano muovendo il cucchiaio come fosse un aeroplanino e rimanevano attoniti con il cibo in bocca: scene di un piccolo quartiere così suggestivo da sembrare finto e come incantato. 

Anche i militi ignoti e le vittime della lupara bianca hanno giocato da bambini occhialuti e tristi con i gusci di noci a manovrare barchette, innocenti ignari del futuro, eppure destinati a mutarsi in uomini e cuori persi nel mondo. 

Gli spacciatori che trafficano con la vita degli altri hanno un tempo scambiato figurine come oggi fanno con le bustine di droga, allo stesos modo si sono confidati ad adulti che hanno loro imposto il silenzio sui loro segreti più inconfessabili. E pieni di sonno dopo una gita sono crollati in auto al ritorno in città, un po’ accaldati per via delle sudate e tanto stanchi che la madre non riesce a fare indossare loro la maglietta.

E i terroristi più crudeli hanno da bambini giocato a scoperchiare formicai tra i sassi mentre le madri li chiamavano a gran voce dalle case a circolo in un cortile condominiale, magari per andare con i parenti a comprare per lui un cappotto nuovo e poi a valutarne insieme nel negozio la misura.

Anche i disperati e gli indigenti, impazienti di nascere per poi fare la fame, hanno giocato a calcio, sbucciandosi le ginocchia e facendo con forza e agilità anche a botte per un gol, vegliati da papà attenti su di loro perché un giorno non si perdano nella vita.


Il testo, siamo d’accordo, è un’opera poetica per via dell’esuberanza di immagini visive rese con il minor impiego di termini e nel quadro di proposizioni essenzialmente nominali entro un vortice di scene icastiche che dà il visibilio. Articolato in sette strofe, fissa altrettante condizioni umane giocando sul raffronto tra età molto diverse e creando quelle che possono chiamarsi “visioni”.
Si apre con la vista di un senzatetto in posizione fetale addormentato su una probabile panchina. È inverno perché per coperte l’uomo usa fogli di giornali. Il termine iniziale “anche”, che ricorre in apertura di altre quattro strofe, non ha valore di congiunzione, sommando un elemento ad altri, ma di avverbio rafforzativo via via in accrescimento, perché modifica il contesto e sta per “persino”. Baglioni chiarisce subito che tutti gli esseri umani, persino i più derelitti, i dropout, sono stati bambini e dunque hanno avuto almeno tre cose: un letto candido dove dormire, confortati da una luce che li rassicura circa la presenza dei genitori; un’infanzia felice al mare dando calci alle onde; una giostra piena di luce dove giocare. Ma ecco il rovescio: il letto è da scalare perché alto, una difficoltà da superare; al mare si consuma l’ultima estate da bambino; la giostra è deserta ed è permesso, per le ristrettezze dei genitori, soltanto un giro.
La seconda visione propone individui, quasi indicati con un gesto della mano, “questi altri”, che nel classico profilo dell’uomo d’affari, inappuntabile perché in cravatta tanto più apparentemente rispettabile, mascherano un animo mortifero essendo mercanti di armi: nel flashback che li riporta all’infanzia li vediamo non più con la ventiquattrore ma con la cartella della scuola mentre tagliano il vento autunnale per andare a scuola il primo giorno di apertura. Qui il passato prossimo, “sono tornati”, muta subito in un imperfetto che dà il senso di una continuità d’azione: nel pomeriggio, dopo la fine delle lezioni, con i raggi lunghi del tramonto, eccoli a giocare alla guerra tra le pietre della campagna e fingendosi appostati alle finestre di case rurali.
Nella terza ripresa il pensiero comune ai bambini che i morti vengano coperti perché non sentano freddo, così come i vivi, alberga anche in quanti da grandi sono diventati criminali, allo stesso modo stupiti e attratti dalla loro vista come da quella dei loro genitori quando venivano imboccati da cucchiai da loro usati a mo’ di aeroplanini; in un clima familiare incantato che evoca un mondo fatto di una stradina e quattro case simile alle palle di vetro da rivoltare per vederle rivivere.
Nella quarta parte della canzone, al posto dei criminali e al loro pari, le vittime bucate “come biglietti da annullare” hanno giocato da bambini con i gusci di noce trasformati in barchette e immaginandosi marinaretti di periferia, come quelli che giocano ai pistoleri e gtli altri che credono di vedere aeroplani nei cucchiai, tutti a chiedersi cosa sarà di loro e cosa delle caramelle ciucciate nelle mani di uomini che a loro volta si sono già persi o sono la proiezione di essi stessi.
Nella quarta visione Baglioni addita gli spacciatori di droga in una delle più riuscite antitesi della canzone: i pusher che vendono bustine e i bambini che sono stati, presi a scambiarsi figurine con quelli più grandi di età, con i quali intrudere un rapporto di confidenza forse anche morbosa, fatta di segreti, silenzi e ricatti. Un’immagine scabrosa e dolorosa alla quale subito viene soprapposta quella irenica di una famiglia che torna in città da una gita al mare in macchina lungo le strade romane supercongestionate e rumorose (evocazione autobiografica di Baglioni): con la scena dei bambini addormentati dietro, febbricitanti nei capelli, cioè sudati e quindi con la maglietta da indossare che fatica a entrare per la stanchezza e la madidezza.
La sesta visione mostra come i terroristi (disperati perché inseguono un ideale politico), insensibili al valore della vita umana, siano gli stessi che da piccoli stavano accovacciati attorno a sassi sotto i quali si nascondevano formicai da distruggere, quando le madri rauche per il gridare li chiamavano a casa, nel piccolo mondo fatto di cortili e di rapporti familiari di gomito in forza dei quali i parenti uscivano per comprare al bambino il cappotto nuovo e giudicarlo davanti allo specchio del negozio.
L’ultima visione convoca i miserabili, i poveri, forse i suicidi, da bambini vissuti a correre dietro un pallone da calcio come frecce (ma c’è chi nel testo legge stracci: e in verità nei concerti Baglioni usa entrambi i termini) finendo anche per litigare in un campo di gioco dove i papà provano a perpetuare quei momenti, esorcizzando l’età dell’innocenza e scongiurando il precipitare dei figli piccoli nella notte in cui versano gli uomini persi.
Gli uomini persi dal mondo e i cuori dispersi nel mondo: quanti da un lato la vita abbandona alla loro sorte, privando la società di risorse ed energie positive in un processo inarrestabile di entropia umana, e quanti da un altro per scelta e per ventura si disperdono nel mondo rinunciando a una vita compiuta.