In fuga (Einaudi), il nuovo libro di Alice Munro, arriva in Italia a un mese dall’uscita in Usa dove è stato accolto con l’entusiasmo che la scrittrice canadese suscita a ogni suo titolo. Accostata a Flannery O’Connor per il restringimento dell’ambientazione a un luogo circoscritto e laterale (nel suo caso il Canada rurale del Midwest), per lo sguardo rivolto a tematiche femminili e soprattutto per la coazione a esprimersi nella sola misura del racconto, Alice Munro rimanda più prontamente a Virginia Woolf in ragione di alcune cure comuni quale innanzitutto - e dominante - quella del tempo, cui sono poi da associare l’attenzione per la famiglia, lo scavo interiore, le ambivalenze dell’animo, la memoria, l’età di mezzo, il passaggio dall’adolescenza alla maturità.
Né può essere vista come un motivo contrario la vocazione al romanzo della Woolf, che se nella Munro ha sortito un solo titolo, Lives of girls and woman, è stato in virtù di un’idea personalissima di romanzo - e di racconto: un’idea che ha realizzato l’ibridazione dei due generi, giusto Lives essendo una concatenazione di episodi autonomi e gli stessi racconti raccolti in In fuga una serie di tranches de vie diacroniche e spalmate lungo un’intera esistenza.
Sicché più che di autrice di racconti (qualità che lei stessa si attribuisce per distinguersi dalle narratrici di lungo respiro) si deve qui parlare di scrittrice a sincopi, alla maniera di un Balzac che dei suoi personaggi fa figure revolute. E se non sono i personaggi a tornare da un episodio all’altro, in una diversa età e condizione, sono le ambientazioni a tenere il passo di una commedia umana e sociale che è un’autobiografia dell’Ontario e dunque un’allegoria della provincia e del suo way of live civile e sentimentale. In In fuga i racconti costituiti come episodi sono tre, “Fatalità”, “Fra poco” e “Silenzio”, protagonista ricursiva Juliet, ma i paesaggi canadesi e il clima d’insieme rimangono sempre inalterati, più catafratti ancora per via di uno stile inconfondibile e divenuto ormai riconoscibilissimo. La cui forza è di rendere conforme la vicenda al contesto con l’uso che fa di quella che la stessa Munro ha chiamato spinta alla “giravolta”: un penchant insistito, agito con potenza e maestria, verso la diversione, giocata tra interruzione e ripresa.
Quando il racconto indulge verso la digressione irrelata, ristagnando in zeppe di circonvoluzione che fanno pensare a una insensata mise en abyme e accendendo veroniche di analessi e prolessi, chi non conosce la Munro non può vedere che è proprio lì che batte il cuore, perché il diversivo conduce improvvisamente - e per vie che soltanto dopo appaiono obbligate - a una illuminazione, uno scioglimento che fa del ghirigoro una linea retta e della giravolta un plesso. Tale che quanto dice Flannery O’Connor di Poe si può dire della Munro: che scriva in stato di ubriachezza. Salvo precisare che è una ubriachezza da elleboro, un antidoto all’uso meramente naturalistico del racconto, un vaccino pure al minimalismo, un eccipiente a penetrare recessi dell’anima e un additivo a cogliere la realtà per linee interne, per stranezze e suggestioni.
Ancora in In fuga il gioco di sospensione è quello che tesse la trama delle variazioni: tra passato e presente, vita e morte, dolore e felicità, amore e sesso in un andirivieni di stati di coscienza ed epifanie che irrorano il turgore di una Munro più che mai decisa a parlare di donne in cammino per dire della sua ventura in divenire.