mercoledì 13 luglio 2005

Dan Brown, il gico del vero e del falso

 


Hanno ragione Frédéric Lenoir e Marie-France Etchegoin, autori di Inchiesta sul Codice da Vinci (Mondadori) a osservare che il problema della fedeltà storica dei romanzi di Brown non riguarda lo scrittore americano ma il lettore: se li legge come documenti «deve costringersi a dare prova di spirito critico e di discernimento per riuscire a distinguere il vero dal falso».
Loro stessi, pur avendo trovato nel Codice decine di dati storici falsi, si sono appassionati alle avventure di Robert Langdon, tanto da avere «divorato» il romanzo come qualsiasi altro lettore inavvertito. Romanzo che, come del resto Angeli e demoni, risponde a quello spirito di fiction americana cui non fa velo alcuno la vocazione a piegare la storia ai fini del copione e del plot. Basti pensare agli ultimi kolossal hollywoodiani, da Troy a The Passion, alle vertiginose inverosimiglianze delle quali nessun tribunale di storici ha opposto la vistosa inesattezza delle fonti.
Perché il cinema è libero di stravolgere la storia e la letteratura no? Nel caso di Dan Brown, americano della migliore scuola forgery story, una sua premessa al Codice, dove garantisce l’autenticità dei fatti, è valsa la sollevazione di un aeropago internazionale di storici ed esoteristi cui non è sembrato vero di potere attaccare Brown per colpire l’invenzione letteraria. Quel che non si riesce a perdonare alla letteratura è di aver attirato l’interesse del mondo occidentale su questioni enigmatiche che la ricerca storica inutilmente ha tentato di portare in primo piano.
Dopo Il Codice da Vinci, personaggi appannaggio dei soli circoli esoterici come Saunière e Plantard, temi quali la sezione aurea, lo «hieros gamos», la sequenza di Fibonacci, figure di nuovo aspetto come Mitterand e Leonardo, luoghi quali la Pyramide e Saint Sulpice o opere d’arte in nuova chiave come La Vergine delle Rocce e La Gioconda, sono diventati argomento comune a milioni di persone di ogni nazionalità. E gli studi specialistici sono stati costretti a seguire a ruota non solo la letteratura ma anche la scienza e persino il giornalismo.
Brown ha infatti chiamato in condivisione autori in tutt’altre materie impegnati che ai suoi due principali romanzi si sono dedicati in figura di esegeti ed esperti esautorando storici e specialisti. Oltre al filosofo e sociologo francese Frédéric Lenoir e alla connazionale Marie-France Etchegoin, una giornalista specializzata in criminalità, si sono infatti messi in proprio scienziati, futurologi e showmen televisivi che, soprattutto negli Usa, hanno fatto dell’arcano un genere di prima grandezza. Il caso più appariscente è forse quello di Dan Burstein, «un uomo d’affari», quale egli stesso si definisce, che al Codice da Vinci e ad Angeli e demoni ha dedicato non poco del suo tempo ricavandone due libri antologici usciti in Italia da Sperling & Kupfer (I segreti del Codice e I segreti di Angeli e demoni, libro nella stesura del quale ha associato addirittura un economista, Arne de Keijzer) che si distinguono per la ricchezza degli interventi e la mole di informazioni raccolte. Nel primo Burstein avverte con estremo candore, dando per ciò solo la misura dello stato delle cose: «Ho sempre nutrito profondo interesse e curiosità verso tali argomenti, ma non voglio vantare credenziali accademiche, religiose o artistiche che non ho. Mi ritengo sullo stesso piano della maggior parte dei lettori del libro». In tale dimessa veste Burstein ha potuto ergersi a studioso estemporaneo e postmoderno esprimendo la propria opinione e imponendo il frutto della propria ricerca in un ambito nel quale l’ultima parola dovrebbe spettare agli studiosi.
Dan Burstein come Dan Brown si sono mossi dunque senza vincoli di mandato sortendo risultati che, nelle loro aspettative, hanno avuto il marchio della scientificità. Senonché appare curioso il fatto per cui Brown, accusato di aver fatto strame della storia, davanti alla prospettiva di un film del suo Codice, si sia mostrato (come leggiamo in Burstein) perplesso perché preoccupato della «mania di Hollywood di prendere una storia come questa e trasformarla in un inseguimento di auto per le vie di Parigi con tanto di mitragliatrici e colpi di karate». 
In realtà la pretesa prioritaria di Brown non è di fare letteratura ma ricerca storica, se è vero che sin da bambino è affascinato dai misteri e se è vero che non legge mai romanzi ma libri di storia oscura. Epperò deve il suo successo non agli esiti delle sue scoperte (perché in realtà non ha che rimestato libri altrui) ma ai romanzi che è riuscito genialmente a creare, la cui struttura ubbidisce ai canoni del migliore modello plottista anglosassone, da Crichton a Forsyth, per stare ad autori che prima di scrivere una storia di fantasia compiono un accurato lavoro di documentazione: autori cui fa specie avvertire il lettore che ogni riferimento a persone o fatti è casuale, appartenendo questa logica piuttosto alla sola tradizione europea. Quella statunitense rifugge infatti l’idea di romance e si sforza di aderire a un tipo di novel che della presa dal vero restituisca un reality, genere in cui sia il contesto - pure storico - ad assecondare il testo.


Il torinese Massimo Introvigne è la «bestia nera» di Dan Brown. Scrive libri, tiene corsi, viaggia per il mondo e cura un sito (cesnur.org) per sconfessare lo scrittore inglese e i suoi best sellers. Che naturalmente ha letto lasciandosi ben trattenere dalla trama e cercando i punti dove alzare il suo indice accusatore di storico e di esperto esoterico, certamente il primo in Italia.
Quale preferisce tra Il codice da Vinci e Angeli e demoni?
Io sono un lettore anomalo, perché non ho interessi letterari e guardo le cose con l’occhio del sociologo, per cui nessuno dei due libri dal punto di vista letterario avrebbe fatto parte delle mie letture. Li ho letti come pensum perché ritengo che la sociologia debba interessarsi dei libri che sono letti da un numero così grande di persone. Ma di per sé non è un tipo di letteratura che leggerei neppure per punizione.
Ma quanto a fondamento storico, quale ha trovato più affidabile o meno mistificatorio?
In una scala di attendibilità storica da uno a dieci sono entrambi intorno allo zero.
Non crede che abbiano avuto perlomeno il merito di avere risvegliato l’interesse su questa materia?
Sì, come un’epidemia di vaiolo che risvegli l’interesse per i vaccini.
In realtà, anche attraverso l’opera del Cesnur, lei ha fatto azione di demolizione.
Non tanto di demolizione ma di sconfessione della pretesa che accampa questo signore di fare qualcosa di diverso dalla letteratura e di svelare segreti che sarebbero coperti da secoli. Se lui dicesse che fa letteratura e basta nessuno di noi si sarebbe mai occupato di lui.
Non si sapeva già che Les dossiers sécrets de Henri Lobineau sono falsi?
Certo. I tre autori dei Dossiers hanno messo per iscritto già da vent’anni che si tratta di falsi. L’ultimo ad ammetterlo è stato nel 1987 Pierre Plantard. Era dopotutto evidente che fossero dei falsi perché bastava un’analisi testuale per rendersi conto che si trattava di documenti appena confezionati e non antichi. Direi che da quando i loro stessi autori ci hanno raccontato come quando e perché hanno confezionato i falsi si poteva ben ritenere che il problema fosse chiuso.
E invece è stato riaperto eccome. Anche le pergamene di cui trattano i dossier si sapeva che sono false.
Certo, false anche quelle. Gli stessi tre autori lo hanno ammesso. In questo momento si trovano nella collezione di Chaumeil e sono state confezionate dal marchese de Chérisey: ce lo dicono tutti e tre: Chérisey, Plantard e de Sède.
La figura centrale è certamente Plantard.
Non c’è dubbio.
E’ lui il grande vecchio.
L’ho conosciuto personalmente e posso dire che tirava la vita con i denti vivendo all’ultimo piano di una vecchia casa senza ascensore. Lui è l’artefice massimo ma paradossalmente fa quasi simpatia perché alla fine è quello che ha messo in tasca meno soldi di tutti.
Era un personaggio mefistofelico o un gran burlone?
Un mistificatore mosso da una grande nostalgia, rispettabilissima, per un mondo scomparso, la monarchia, la cavalleria... Era soprattutto un attivista monarchico, deluso dal fallimento totale di questa sua causa che negli anni Cinquanta e Sessanta era certamente sentita.
Come si è arrivati a dare tanto credito a un simile imbonitore?
Non ha mai goduto di grande credito. Il libro di de Sède vendette ben poco e negli ambienti esoterici ebbe pochissima risonanza. Il credito semmai lo ebbe nell’82 The Holy Blood and the Holy Grail di Lincoln, Baigent e Leigh (tradotto in Italia col titolo Il Santo Graal) perché fu pubblicato in Inghilterra dove nessuno conosceva Plantard. Tuttavia arrivarono anche lì le voci sul fatto che lui fosse un vecchietto, forse innocuo, ma dedito a raccontare fole. Nell’86 Lincoln e compagnia cercarono di deplantardizzare tutta la storia, ma in Francia non ebbe seguito perché lo conoscevano bene.
Ma adesso il credito se l’è guadagnato.
Adesso sì. La storia è paradossale, perché il marchio del Priorato di Sion è ancora in mano ai suoi eredi. Parlo del Priorato fondato nel ’56: esiste ancora, diretto di Gino Sandri, ma è composto da poche persone. E costoro riferiscono che gli iscritti continuano a essere nel mondo meno di un migliaio. La gente si appassiona ma poi non aderisce al Priorato. Che è uno ed è quello di Plantard.
Dunque già prima di Dan Brown esisteva già una vasta letteratura.
Oltre cinquecento tra libri e romanzi.
Solo che è rimasta specializzata. E a sdoganarla ha provveduto Brown.
Diciamo che non aveva mai guadagnato il favore e l’interesse degli storici perché si sapeva - a seguito soprattutto della confessione - che documenti e pergamene erano falsi. Quello che ha stupito gli addetti ai lavori, dopo che nell’87 sembrava si fosse messa la parola fine a questa vicenda, è che qualcuno potesse riprendere a distanza di vent’anni qualcosa sulla quale era rotolava la pietra tombale. Perché L’or de Rennes di de Sède è del ’67, The Holy Blood and the Holy Grail dell’83, Messianic Legaly del ’96, le confessioni sono dell’87. Se n’è parlato molto meno anche se ha ispirato fumetti, ma si è trattato di opere di fiction come Preacher e The Magdalena.
Lei ha fatto un’azione accanita se è vero che la sesta pagina del Codice da Vinci, dove Brown dava conto del fondamento storico del romanzo, non è stata ripubblicata.
Chi si è arrabbiato di più per l’omissione è stato proprio Brown, che ne ha imposto il ripristino anche su Mondadori perché ha definito quella la pagina più importante, pensi un po’.
Lui continua a sostenere l’attendibilità delle ricerche.
Già. Dice che non è solo un romanzo e che la storia del Priorato di Sion come la racconta lui è vera. Così anche per gli Illuminati. Anche lì i documenti su cui si fonda sono falsi. C’è una lettera di Leopold Engel a Le Forestier che confessa il falso e che è del 1914. Da molto tempo si sa che i documenti che Brown utilizza per sostenere che hanno fatto parte degli Illuminati anche Galilei e Bernini sono dei falsi.
Quanto al Codice, essendo passati dall’Età dell’Acquario a quella dei Pesci, stando alle profezie il Priorato avrebbe dovuto già rivelare tutto sul femminino sacro, nascosto dal Concilio di Nicea.
Quello del femminino sacro è un tema di cui il vero Priorato di Sion, quello di Plantard, non si è mai occupato. Si figuri che finì in prigione per molestie sulle bambine.