Simona Vinci è tra gli autori pulp che per primi hanno lasciato la tribù dei «cannibali» dopo aver contribuito non poco a edificarla con una carica di hard-splatter che provocò sconcerto anche nelle generazioni più aperte all’impatto crudo e nudo della voga della mimesi totale e del rispecchiamento della contemporaneità. Il suo primo romanzo, Dei bambini non si sa niente, uscito nel ’97, un anno dopo Gioventù cannibale (l’antologia che fece da introibo a un gusto cui non mise capo che scarso alimento), fu colto in pieno dalla forza d’urto splatter che a Bologna spirò più violentemente che altrove facendo strame del retaggio tondelliano, anch’esso emiliano, ma in afelio rispetto al noir, mitologo di una ben diversa vocazione al vero. Forza d’urto che guidò la mano dell’autrice fino a farle scrivere quel finale rimasto a suggello di eccesso del pulp italiano: un bambino che impala una bambina con il manico di una racchetta davanti ad altri bambini consenzienti e correi.
Ma con gli anni il noir della Vinci si è stemperato sempre più in una rinascente vena intimistica e psicomachica, a partire subito da In tutti i sensi come l’amore, che è di due anni dopo. E’ però nel 2003 con Come prima delle madri che i conti con la temperie originaria si chiudono, salvo l’accenno a un segnale di ripresa con l’ultima prova, Brother and sister, dove il ritorno sulla scena dei bambini ripristina il clima di partenza, ma depurato della sordida presa di carico delll’horror più precipite.
La sua non è stata in fondo che la strada percorsa da tutti gli altri «cannibali», ma Simona Vinci si è mossa portando dalla sua prima dimora qualche effetto personale con sé: una visione del mondo girata dal punto di vista infantile, lo spirito di abbandono e di isolamento, un’idea di colpa che si disputa l’anima con quella di innocenza, il sentimento avversativo nei confronti degli adulti, portatori malati di guasti interiori e sociali, il sollievo che procura il contatto con gli elementi della natura, la ragione del gruppo e le ragioni dell’età. Cammin facendo ha aggiunto nuovi cespiti al suo patrimonio letterario: la coazione a far pensare i personaggi più che a farli agire, una maggiore aderenza al dettato storico e al dato civile, un paesaggio più immagato e irreale, pronto a prestare il senso di quel simbolismo mutuato dai poeti maudits vivamente connaturato nell’uomo, e una voce più lirica, forse anche più elegiaca.
Ma rimangono inalterate le tangenze, nella sua piattaforma narrativa, di un rapporto prossemico e apotropaico tra il mondo dei bambini e quello degli adulti, dove sono i primi sufficienti a se stessi mentre questi appaiono elementi estranei e urticanti, figure sempre psicologicamente disturbate, di animo anch’esse cattivo ma non giustificabile né revulsivo. Nel mondo risolto della Vinci sono i bambini i protagonisti e gli artefici delle res gestae mentre gli adulti assumono i caratteri dei patrigni in via di tralignamento e in foggia di angeli caduti.
L’immagine corrente nei due romanzi omologhi, Dei bambini non si sa niente e Come prima delle madri, della lumaca che lascia il guscio può fungere da chiave di intonazione della ricerca vinciana dando il senso dell’emancipazione, del desiderio di libertà, del passo prudente in un terreno sconosciuto e infido. Ed è una immagine presa dall’ordo naturalis, il più conforme al mondo infantile e alla sua convenzione naturalistica.
Ma in Brother and sister assistiamo a un rivolgimento del modello, che è di spirito fiabesco, restituendo della fiaba le cime oscure, il contenuto misterioso e tenebroso il cui lievito si rivela proprio la natura. E se nei primi due romanzi la ribalta è un capannone nel primo e una capanna nel secondo, dunque un interno, qui è il bosco a stendere le tarsie di una teratologia che fa della natura un gorgo primordiale. La convocazione all’esterno dei personaggi nel gurgite di una natura che da bàlia diventa balìa integra una forma eterogenetica della lumaca che sguscia, un modo nuovo di muovere i passi nel mondo altro e sconosciuto. Dove insieme con l’orco c’è anche l’elfo e dunque la speranza di salvezza. Ma anche la deriva, una volta mancata la tutela dei grandi, la sola che possa costituire tutt’altro che un rimedio illusionistico.
In questo quadro di rimandi, di soluzioni che si tingono reciprocamente, di tensioni sperimentali ed esplorazioni di nuove estetiche, ruolo di paradigma, la vicenda letteraria della Vinci assume ruolo di paradigma, mostrando l’aspetto di una parabola sulla quale possono allinearsi altre esperienze come possono anche scorgersi segni di prossime tendenze.
Recentemente lei ha espresso perplessità facendo autocritica circa la riuscita del suo Come prima delle madri spiegando che, concentrata a conoscere i bambini, è mancata nello studio del mondo degli adulti. Eppure quel romanzo rimane la sua prova più matura.
Sulla «maturità» ho le idee un po’ confuse. Ho sempre associato la maturità al punto più alto di una parabola discendente e dunque al declino. Mi auguro di non trovarmi a quel punto, e di non trovarmici mai. Quando ho visto l’espositore che l’Einaudi aveva preparato a mia insaputa per il lancio del libro e ho letto questa frase «il romanzo della piena maturità di Simona Vinci» mi sono sentita male. Alla piena maturità, come essere umano e come scrittore spero di non arrivarci mai. Vorrebbe dire aver finito di dire e di dare, e soprattutto di scoprire e imparare. Per quanto riguarda l’autocritica, è una cosa che faccio sempre: un romanzo, una cosa che scrivi, non è mai esattamente come l’avevi progettata, le iniziali idee grandiose si scontrano con i mezzi limitati che hai a disposizione. Quel romanzo ha covato in me per moltissimo tempo, era il primo vero romanzo che scrivevo e avevo il desiderio di metterci dentro tutto quello che avevo imparato; è stato un esperimento. Ho cercato anche di parlare di un mondo, quello adulto appunto, e di un periodo storico che non conoscevo se non per via indiretta e ho scoperto che è una cosa che non mi interessa fare, una via che non mi appartiene. Di quel romanzo salvo solo l’ultima parte, è la più libera e l’ho scritta con una felicità rara, quella delle cose che sembrano farsi da sé.
In un certo modo, pur confermando sempre che non lo cambierebbe - neppure nella parte dell’ultima tremenda scena - ha espresso qualche riserva anche su Dei bambini non si sa niente, quanto soprattutto agli eccessi. In realtà nelle successive storie i suoi bambini, da In tutti i sensi come l’amore a Brother and sister, non sono più stati della stessa pasta orrida: nei fatti ha dunque compiuto atto di resipiscenza?
Ogni libro ha dei difetti, degli errori, delle incertezze, che - come diceva Duras - vanno lasciati, per non mutilarlo, per non renderlo un libro finto, costruito a tavolino. Dunque io vedo quegli errori ma lo stesso, a distanza di anni ormai, penso che quel piccolo libro abbia una sua vita indiscutibile. Ma è un romanzo, una storia, quella particolare storia, non una teoria pedagogica o sociologica. I bambini degli altri romanzi, o racconti, sono altri bambini, e hanno altre storie.
Se dovessimo immaginare che siano cresciuti, a distanza di otto anni cosa ne sarà stato di Greta, Luca, Mirko, Mateo e Martina, i bambini-mostro di Dei bambini non si sa niente?
Non possiamo immaginarlo: i personaggi dei romanzi non crescono, non invecchiano, vivono nell’eterno presente al quale la scrittura li ha consegnati. E comunque, io non li definirei bambini-mostro, i mostri in quel romanzo sono semmai gli adulti.
Dei bambini non si sa niente è un romanzo che ha fatto da seme. Penso a Io non ho paura di Ammaniti: un campo di grano, un’estate torrida, un gruppo di bambini, un’ambientazione all’aperto e la violenza. Ma anche la paura, che è un suo tema fondativo. Però quei suoi bambini fanno più paura degli adolescenti di Ammaniti.
Che ci siano dei temi di fondo che accomunano i due romanzi è indubbio. La prima volta che sentii Niccolò parlare di quella storia che aveva in mente di scrivere pensai: ma io questa storia un po’ la conosco. Poi, ho letto il libro, l’ho divorato e amato, e naturalmente era del tutto diverso dal mio. Le storie d’altra parte, volendole ridurre all’osso, al puro canovaccio, non sono infinite, si riducono a poche varianti. Sono degli archetipi. Poi c’è il come le racconti. C’è la voce dell’autore, il suo sguardo, la sua particolarissima sensibilità. E in ogni caso, prima c’è stato Il signore delle mosche, di William Golding, un classico. Che tra l’altro, prima di scrivere Dei bambini io non avevo ancora letto.
Nei suoi romanzi i bambini sono sempre di una natura diversa e mutevole, a osservarli bene. E’ come se avesse creato una tassonomia infantile. Quanti bambini ha insomma?
Nessuno. Ma sono stata una bambina e continuo a pensare che i dieci, undici anni siano l’età più interessante della vita, quella decisiva, almeno di quella che ho vissuto sino ad ora, magari gli ottanta saranno ancora meglio!
Lei ha detto in un’intervista che per scrivere un romanzo o un racconto parte sempre da un’immagine che la ossessiona a lungo. In un racconto di In tutti i sensi come l’amore, "Lettera col silenzio", scriveva che quando perde le parole sa «che presto un’immagine apparirà, pronta a risvegliarle». Immagine equivale a scena? Ed è in movimento o fissa?
Un’immagine, una sequenza, una situazione, una scena, fissa e in movimento: tutte queste cose insieme, dipende. Però non è mai un intreccio, una trama, quello da cui parto per scrivere. E’ un nucleo visivo. Per Dei bambini è stata l’immagine di una bambina di spalle davanti a un campo e per il romanzo che sto scrivendo adesso quella di una donna che corre lungo il bordo di una strada provinciale invasa di camion.
Quando parla di immagini si riferisce anche alla metafora, che è una «figura» frutto di un valore semantico ipostatizzato della parola?
Sì, ma di questo in genere mi rendo conto alla fine di tutto il processo: quando ho finito di scrivere, ed è passato del tempo, mi accorgo che quell’immagine iniziale racchiudeva in sé tutto il senso di ciò che sarei andata a raccontare, e a scoprire.
L’immagine è una sua fonte ispiratrice. Ma un’altra è anche la rabbia. Senza tale forza interiore, questo impulso a gridare e denunciare lei non prende slancio. Più volte e in più occasioni ha evocato «altre rabbie» necessarie a scrivere perché possa essere
sottovalutato questo secondo motivo di ispirazione.
La rabbia è una delle pulsioni fondamentali dell’essere umano, basta osservare un neonato per comprenderlo. Attraverso la rabbia ci si mette in relazione con il mondo e con gli altri. Certo bisogna imparare a guidarla perché sia produttrice di senso e non di caos, perché crei qualcosa invece di distruggere e basta. Però ne resto convinta, almeno per quanto mi riguarda, la rabbia è un propulsore formidabile.
In Brother and sister il bosco è elemento diegetico del romanzo, gravido di un forte senso di realtà e con un valore che è quello che ritroviamo per esempio in Baldini: di prevalenza e prevaricazione sull’uomo. Ma l’apparizione di Umpa rende il bosco una presenza surreale e il racconto da realistico prende la strada del mitico e del fiabesco, del simbolico e dell’apologo. E’ il segno di un nuovo corso narratologico?
No. Nessun nuovo corso. Quella particolare storia ha preso quella particolare strada. Mi pare che comunque la Natura, il Paesaggio abbiano sempre avuto un ruolo fondamentale in tutto quello che ho scritto, e anche la dimensione simbolica.
Lei è bolognese e fa parte di una «scuola» che riunisce il maggior numero di giallisti e noiristi e che soprattutto ha una sua estetica dell’horror e del mystery che fa la differenza nell’osservazione del contemporaneo. Come giudica questa esperienza?
Non la definerei una «scuola», almeno per quanto mi riguarda. Sicuramente qui a Bologna (e dintorni) c’è una concentrazione altissima di giallisti e noiristi, è cominciato tutto con Loriano Macchiavelli e Giuseppe D’Agata, e intorno a loro si sono raccolti dei giovani scrittori che piano piano hanno fatto la loro strada e da cosa è nata cosa. Io sono solo molto amica di alcuni di questi scrittori, ad esempio di Carlo Lucarelli, Eraldo Baldini, Giampiero Rigosi. Poi ci sono i Wu Ming, c’è Marcello Fois, Stefano Tassinari, tutte persone che hanno sicuramente in comune una cosa: la passione civile e la curiosità per il mondo che li circonda. La particolare caratteristica del nostro humus emiliano-romagnoli, anche di quelli acquisiti, credo sia proprio questa, oltre alla socievolezza e all’assenza di acredine e invidie gli uni nei confronti degli altri: e infatti Bologna è l’unica città in Italia dove esiste un’Associazione Scrittori. Naturalmente ci sono stati e continuano ad esserci moltissimi scambi: ci troviamo per leggere quello che scriviamo e per leggere cose di altri, discutiamo appassionatamente e litighiamo moltissimo perché in realtà ognuno di noi segue la sua strada e ha le sue preferenze. A me in particolare poi il genere puro non interessa, direi anzi che mi annoia molto. I generi mi interessano solo se possono essere forzati dall’interno, smontati, fatti esplodere.
Il noir rimane secondo lei il genere preferibile per raccontare il mondo?
Non c’è nessun genere preferibile. Tutto dipende dalla sensibilità dell’autore, dalla sua capacità. Devo dire che se non mi piace la scrittura, lo stile, io non riesco a leggere più di una pagina di un libro, può anche essere la storia più avvincente del mondo ma lo stesso non riesco a leggerla. Faccio un’eccezione solo per i true crimes, lì posso anche non andare per il sottile.
Dopo due romanzi così diversi come Brother and sister e Come prima delle madri si è legittimamente curiosi di sapere quali vie percorre la sua vocazione sperimentalista. Innanzitutto: ora che è diventata «adulta» lascerà il mondo dei bambini?
Intanto, adulta non direi, semmai sto diventando vecchia! Ho appena finito di scrivere un testo di difficile definizione, una via di mezzo tra un’epistola e un trattatello, che uscirà all’inizio del prossimo anno e sto lavorando a un romanzo più tradizionale, sono a metà del lavoro e ancora non saprei dirne molto se non che mi «abita» completamente da due anni e che in certi momenti, e in certi punti, mi pare la cosa migliore che abbia mai scritto. In questi due lavori, di bambini non ce ne sono, ma nei racconti dei quali sto buttando giù delle tracce, sì. Non c’è niente di programmatico in quello che faccio, osservo il mondo attorno a me e cerco di scoprire dei nessi tra le cose che ascolto e vedo e spesso a colpirmi di più sono i bambini, e i vecchi, hanno meno maschere, meno finzioni, sono più vicini all’inizio e alla fine, per questo la parola maturità non mi piace, è precisamente quella cosa che sta in mezzo: a me interessano gli estremi.