venerdì 6 febbraio 2009

Eluana e gli altri


Eluana Englaro, come Paolo Onofri e come Piergiorgio Welby, rilancia proprio in Italia, a ridosso cioè del Vaticano, un caso di coscienza universale che reitera interrogativi immanenti la condizione umana: una vita, anche la peggiore per la sua qualità, merita sempre e comunque di essere tutelata, a prescindere da ogni implicazione, compresa la questione se possa ritenersi vita quella artificiale cui è costretta una persona in coma vegetativo?
Oppure esiste un limite oltre il quale la vita si confonde con la morte e non ha più ragione d’essere? Si tratta di interrogativi che postulano un punto di riflessione: un uomo può spegnere la vita di un altro uomo fuori da ragioni belliche e di giustizia entro le quali trovano storicamente sconcertante legittimazione? 
Insomma, l’eutanasia può rientrare tra i valori positivi e condivisi dell’umanità, tenuto conto che con essa viene accolta anche l’idea di suicidio attraverso la categoria dell’omicidio del consenziente? Di fronte all’impossibilità di una vita sopportabile, una persona ha la libertà di togliersela affermando un diritto alla morte uguale a quello alla vita? Per Cioran sì: per fortuna, secondo lui, c’è il suicidio a rendere la vita tollerabile, perché si può uscirne quando non lo sia più. In Casa d’altri di D’Arzo una donna chiede al parroco se può andarsene un po’ prima e ottiene un rifiuto, perché la vita è sacra per la fede cristiana e non rientra nel conto dei beni disponibili. Ma di quale vita parla la Chiesa? 
La Chiesa cattolica conosce solo una forma di vita vera, quella eterna, che è una meta cui si perviene dopo aver superato la prova terrena, prova che perché tale integra una concezione di vita difficile a priori, donde l’equazione secondo cui è tanto più conseguibile la vita terrena quanto più sia aspra quella terrena. Se è più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago che per un ricco guadagnare il regno dei cieli, quanti hanno una vita facile e bella, sgravata dalle pene della povertà e del bisogno e che altro non hanno fatto se non costruirsi un agognato benessere materiale, si vedono perciò destinati alla dannazione eterna. 
La vita terrena dev’essere perciò lacrime e sangue, talché l’esperienza di Cristo, circonfusa nel terribilismo più fondo, ne è una controprova: tradito, condannato e ucciso nel modo più orrendo e raccapricciante, dà mostra di essere vissuto testimoniando la presenza inestirpabile del male nel mondo. La sua «vita» cambia solo con la resurrezione, condizione che lo innalza a uno stadio al quale vuole guadagnare tutti gli esseri viventi, credenti in un mondo che però è diverso dal nostro. 
Ma è corretto parlare di uccisione circa la morte di Cristo? Per effetto della santissima Trinità, Gesù è anche Dio onnisciente e, sapendo che morirà sulla croce, accetta una forma di suicidio, o di omicidio del consenziente, che ammette perciò la morte volontaria. 
In certe culture, pensiamo a quelle orientali, il suicidio è visto ancora oggi come un atto di espiazione e una redenzione d’onore; in altre, come la nostra, è riguardato invece alla stregua di una complicanza estrema di uno stato di depressione, effetto di un male oscuro che rimane tale anche per le conseguenze drammatiche che involge sul piano religioso: chi si uccide perché preda di morbosi istinti suicidi e quindi perché malato non ha diritto a un funerale liturgico e finisce in quel limbo che è un doppio trascendentale della considerazione terrena in cui viene lasciato, considerazione comunemente espressa nel silenzio con cui la stampa tratta i suicidi e nelle perifrasi con cui il suo gesto, sempre «insano» e sempre opera di «povero» uomo, viene interpretato. 
Mai il suicidio è visto come un atto di libertà, più precisamente di manifestazione della volontà. Il suicida è un perdente, fomenta l’emulazione, scoraggia l’attaccamento alla vita, disincentiva lo spirito di intraprendenza, isterilisce l’amor proprio. Ogni regime che depreca l’inettitudine lo ha in forte spregio, laddove Dante lo condanna all’Inferno trasformandolo in un vegetale che nemmeno nel giorno del Giudizio merita di riappropriarsi del corpo che ha inconsciamente gettato via. 
Gettare via non il corpo ma il proprio spirito – e farlo in tutta consapevolezza – è quanto l’esistenzialismo imputa all’uomo, che è heideggerianamente gettato nel mondo, preda dei rivolgimenti del proprio animo, destinato a maturare un senso di angoscia che Jaspers, secondo cui bisogna parlare di «naufragio», vede risolversi solo in una prospettiva divina. In questa chiave l’interruzione volontaria della vita è un esito senza scampo per chi non trovi rimedio nella fede, un esito ineludibile che appartiene alla sfera del «singolo» messo di fronte al senso tragico della vita, come lo vedono Kierkegaard, il padre remoto dell’esistenzialismo, e Unamuno, l’interprete principe del pensiero fenomenologico – Nietzsche facendo a entrambi da suggeritore occulto.
Il suicidio rimane dunque un male, ma non è un male sociale bensì individuale. L’inoggettivabilità della vita rende la definizione del proprio destino un atto soggettivo dipendente dallo stato d’animo e dall’andamento dei rapporti con gli altri, elementi decisivi a farsi una vita entro un canone che è sempre possibilistico e mai deterministico. In altre parole un uomo può essere incline al suicidio se fallisce il proprio progetto di vita nello scontro-confronto con gli altri. Essere nel mondo, per l’esistenzialismo, significa esperire mezzi per costruire la propria vita secondo un codice di possibilità che impegna la fortuna, l’indeterminazione, la probabilità: esattamente come avviene nel mondo infinitamente piccolo, giuste le scoperte della fisica quantistica. 
Cultura e natura trovano dunque un punto di sintesi nella interazione delle parti. Ciò significa che il suicidio è sempre un omicidio in nome collettivo, perché non si fallisce nella vita senza la concorrenza di elementi intersoggettivi esogeni. Ne discende che gli altri sono responsabili non solo dei nostri mali spirituali ma anche delle nostre sofferenze fisiche, che diventano sopportabili o meno a misura del grado di aiuto avuto moralmente e materialmente dall’esterno: altrimenti dovremmo avere tanti aspiranti all’eutanasia quanti sono i malati di una stessa patologia irreversibile, mentre accanto a un Welby che vuole morire troviamo un altro distrofico muscolare amiotrofico che invece vuole vivere. 
E’ vero che la Costituzione tutela il diritto soggettivo a rifiutare trattamenti sanitari coatti, ma è anche vero che è fatto obbligo a chiunque di prodigarsi a salvare la vita altrui. Sicché ad ogni persona che chiede di morire deve corrispondere un numero indeterminato di persone imputabili di omissione di soccorso. Quali che siano le perifrasi e gli eufemismi adoperati, aiutare una persona a morire vuol dire toglierle la vita e convincerla a farlo significa istigarla al suicidio: ciò perché chi chiede di andarsene un po’ prima si trova sempre e comunque in una condizione di minorità fisica e morale, in una condizione cioè di incapacità ad agire una cui parte preponderante di colpa ricade sugli altri se non sulle stesse persone, generalmente i familiari, che credono di vedere il proprio dolore in quello dell’aspirante suicida mentre temono che sia in realtà minata anche la propria vita nella sua qualità. Nell’intento di seppellire anche le proprie colpe, compresa quella di non riuscire a sopportare la sofferenza altrui, si credono impotenti quando sono invece sane e si sentono da dover essere compatite quanso sono invece responsabili. Nessuno chiederebbe mai di morire se avesse un barlume di speranza di vivere come prima: una speranza che non si può dare da sé nelle condizioni di disperazione in cui si trova, ma che deve venirgli dagli altri, i quali però sono i primi a negarla anche a se stessi e che nell’assunzione di un dolore altrui nascondono responsabilità personali.