sabato 22 agosto 2009

Sciascia, cosa è rimasto vent'anni dopo


A vent’anni dalla scomparsa, Sciascia sfugge in maniera anguillare a ogni tentativo di storicizzazione e continua a mantenersi «attuale», come nel ’74 lo vede Pasolini per il quale la sua vocazione a giudicare il mondo nasce dalla natura di «moralista meridionale»: un moralismo civico e laico fondato su un’arcaica antropologia dell’onore ed esercitato esclusivamente sul suo tempo.
Come si spiega allora che, pur interessato solo al suo presente, Sciascia sia oggi, in una realtà nazionale cambiata radicalmente, oggetto di intense iniziative commemorative di cui danno ora cospicuo conto anche le due monografie del “Giannone” e di “Panta”? La risposta è forse in una questione rimasta aperta: autore di spirito illuminista, philosophe che non ama Rousseau solo perché apre il romanticismo, intellettuale che eleva la ragione voltairiana a crisma di verità, Sciascia tradisce nello stesso tempo una ricorsiva sensibilità su temi come la memoria, il sogno, la malattia, la morte, la passione, tutti motivi decadentisti e quindi sottratti alla caducità del contingente e al principio di realtà. Cosicché, mentre lo vediamo impegnato a lavorare unicamente sull’hic et nunc, ergendosi a coscienza critica ed eretica di tre decenni, muta inaspettatamente l’ethos in pathos, il segno in simbolo, la vista in visione e concepisce titoli «romantici» quali Le favole della dittatura, La Sicilia, il suo cuore, Il teatro della memoria, Candido, un sogno fatto in Sicilia, che ne fanno un autore vicino a Chateaubriand non meno che a La Rochefoucauld. Non solo: detta pure un epitaffio, «Ce ne ricorderemo, di questo pianeta», che suona come una ritrattazione in dubbio. 
Ma c’è di più: «il modulo antico della parabola fantastica quale si declina nelle due opere supreme, Il cavaliere e la morte e Una storia semplice» – sono parole di Bufalino – si riconnette, a chiudere un’intera vicenda letteraria, alle prime prove poetiche dove il fondo antirealistico, entro un lessico ispirato a criteri di antiretorica ed autenticità, raggiunge punte ermetiche e guadagna quindi territori avanzati del simbolismo decadentista: tale da fare parlare un realista magico come Giuseppe Bonaviri di dimensione arcaica siciliana, a una voce dunque con Pasolini. 
Certo, c’è Manzoni a traghettare Sciascia da un coté all’altro e c’è anche Pascal a insegnargli come coniugare memoria e ragione, ma nell’orizzonte di Sciascia non figurano né Proust né Joyce né Svevo, i padri europei del Novecentismo. Balugina appena Musil ma manca pure Bufalino, che tuttavia nel ’92 si impegna con forza per fare di Sciascia un suo confrère sostenendo che «lontano dal tapparsi a doppia mandata nel castello di cristallo della pura ragione, volentieri Sciascia consente a sporgersi sul popolo d’ombre gementi che alle soglie di quel castello s’accalcano».
La ricerca non si è molto affannata a spiegare l’identità ancipite di uno Sciascia che se da un lato osserva i mali della società attraverso quelli psicomachici dell’individuo, mutuando così Pirandello, da un altro – guardando, al contrario, a Verga – scruta il mal-aimé dell’uomo contemporaneo nella specola sociomachica della unamuniana «circostanza». 
E’ stata questa doppia e parallela tensione a fare di Sciascia uno scrittore così longevo e così attuale? Una risposta era lecito attendersi da queste due antologie, ma l’occasione non è stata colta se non in maniera scorciata, segno che la critica non ha ancora deciso che dimora dare all’autore italiano più celebrato e più disprezzato, dacché lo ritroviamo collocato nella modernità, nel classicismo, addirittura nel postmoderno, come anche nella letteratura di crisi e borghese, nel pamphlet di denuncia, nel romanzo poliziesco e in tanti altri campi e generi, non ultimo uno speciale storicismo anti crociano e anti lampedusiano che lo induce a ragionare sempre in termini di controstoria.
Alla ricerca di un perché circa la multanimità di Sciascia, nel “Giannone” aspetti originali sono colti per esempio da Claude Ambroise che nello scetticismo sciasciano sorprende un montaigniano stimolo alla retraite, alla «cessazione della partecipazione attiva alla vita pubblica», un’urgenza che avvicina Sciascia al Calvino deciso a estraniarsi dal suo presente e che per questa via lo conduce, in un intento escapista, verso Savinio e ancora oltre verso Borges. Nel numero di “Panta” significativa appare poi l’intuizione di Vigorelli secondo cui Sciascia «va lungo l’eredità insfruttata del Verga maggiore che non sa descrivere la “gintuzza” e interrompe i “Vinti”», laddove Sciascia con Il consiglio d’Egitto sa fare parlare sia la «gintuzza» come il «gran mondo» dando per converso un «Gattopardo revisionato, più genuino, una cronaca stendhaliana aristocratica e popolare insieme». 
Ancora in “Panta” troviamo una lucida illuminazione di Salvatore Battaglia che parla di «sperimentazione che ambisce a far coincidere il metodo storico con l’invenzione, il dato d’archivio con l’interpretazione lirica» mentre nel “Giannone” Filippo La Porta trova una sintesi ossimorica tra mente e cuore: quella di «illuminista tragico». Ma a porsi il maggior numero di domande è su “Panta” Massimo Onofri che, in un innesto di metafisica e realtà, libera Sciascia dall’ipoteca realista chiamando come garante il Brancati che pone l’arte al di sopra della storia e quindi, platonicamente, l’ideale prima del reale. Ma appunto, siamo ancora fermi alla fase delle domande. Vent’anni dopo.