Il Corriere della Sera ha pubblicato sedici pagine consecutive di pubblicità dedicate a un’autovettura Audi. E’ la seconda volta nel giro di poche settimane. Trova conferma la teoria secondo cui una pubblicità è tanto più efficace quanto più vistosa riesca a rendersi. Il mondo della cartellonistica e dell’insegnistica risponde proprio a questa logica dell’evidenza. Che se non segue un principio di progressiva espansione è solo perché lo spazio pubblicitario è direttamente proporzionale al costo: più quella aumenta, più questo cresce.
Ma il fatto che una pubblicità sia vistosa non assicura circa il buon investimento della spesa, perché non vige alcun rapporto di causalità tra il consenso che tende a ottenere e l’intervento finanziario che l’operazione pubblicitaria comporta. In termini di risposta del pubblico, anche uno spot al altissimo costo, con un testimonial di grido, può esitare un tonfo clamoroso. Quel che piuttosto conta ai fini della riuscita non è il budget ma l’idea, che è un prodotto della mente e quindi ha un costo zero. E’ l’idea infatti che determina il risultato pubblicitario.
Si racconta di una campagna pubblicitaria che sortì un inatteso fallimento ancorché fosse ineccepibile sotto ogni punto di vista. O quasi. Il problema infatti era proprio nell’idea che i creatives posero alla base della promozione della compagnia aerea in questione: i viaggiatori diretti a piedi verso l’aereo erano fotografati di spalle, cosa che instillava nella coscienza comune l’innata paura del volo. Cambiati spot e cartelloni, e fotografati i viaggiatori in viso, sorridenti e rilassati, la pubblicità prese finalmente quota.
Se l’idea è l’anima della pubblicità, non ne è però oggi il motore, l’elemento primario essendo diventato la vistosità, acquisizione questa legata al processo di globalizzazione: un prodotto ha chances di affermarsi se il suo messaggio si fa ridondante, cioè se si moltiplica ed è reiterato. Lo scopo è sì che divenga sempre più visto, ma non da un numero crescente di persone quanto dallo stesso individuo destinatario. Questo rivolgimento tattico nasce dal fatto che la globalizzazione ha uniformato i gusti del pubblico e operato una reductio ad unum dalla società all’individuo.
La missione oggi del messaggio pubblicitario (così come del resto quello politico e culturale) non è più quella che raggiunga quante più persone possibile ma che convinca vieppiù ogni singolo consumatore. Il quale, a differenza del passato, non è più destinatario di pochi e scrutinabili messaggi ma oggetto di una molteplicità crescente e incontrollata di forme di persuasione.
Ne consegue che a una bella idea diventi preferibile un massiccio bombardamento. Le sedici pagine dell’Audi uscite sul Corriere, prive come sono di una idea che rimanga in testa, che cioè «colpisca», dimostrano come la pubblicità si affidi più alla quantità del messaggio che non alla sua qualità. In altri termini, e rovesciando l’impostazione, ogni sforzo viene esperito al maggior vantaggio del prodotto, perseguendo un obiettivo immediato e diretto, che non a maggior gloria degli artefici del messaggio stesso.
Questo «spirito dell’abbaglio» non domina soltanto la pubblicità. Anche la condotta umana si serve degli stessi mezzi: una manifestazione pubblica deve essere maestosa e sfarzosa, l’imponenza deponendo per il rango del celebrato anziché del celebrante. La cerimonia di insediamento di Obama alla Casa Bianca, uguale a quelle storiche di re, imperatori, faraoni e pontefici, è stata colossale perché fosse infatti degna del presidente degli Usa e non perché dovesse esaltare il protocollo e l’organizzazione. Chi si aspettava che Obama prendesse possesso della carica semplicemente facendosi dare le chiavi della Casa Bianca ed entrando all’insaputa di tutti con la sua famiglia, cosa che qualcuno auspicava come segno di reale rottura col passato, è stato disilluso dalla forza che in sé ha lo spirito promozionale, ovvero l’intento pubblicitario.
La pubblicità, portata al massimo delle sue possibilità attrattive, serve dunque per magnificare un prodotto. E’ la logica della Coca Cola, la bevanda più diffusa al mondo: fa pubblicità non certo per vendere di più ma per affermare un potere. In questa prospettiva la pubblicità non è vista come un mezzo di convincimento ma come uno strumento di consolidamento, una prova di ostentazione di presenza e di successo, quella che nella società istituzionale corrisponde alla parata. E tale è stata infatti la cerimonia sulla Pennsylvania Avenue.
Se così stanno le cose, la pubblicità non può che essere invasiva. L’ultima strategia l’abbiamo osservata, preoccupatissimi, quando su la Repubblica e il Corriere della sera sono apparse inserzioni della Telecom fatte per condividere la pagina con i testi giornalistici, i quali sormontavano un fondo costituito appunto dalla pubblicità. Il vecchio divieto di commistione fra pubblicità e informazione, insegnato in ogni scuola di giornalismo, è saltato nel giro di un giorno. Gli inserzionisti Telecom si sono resi conto che una pagina pubblicitaria non induce il lettore a fermarsi quanto può farlo un articolo giornalistico. Per riuscire a trattenere il lettore su una pubblicità è dunque necessario spacciargli un secondo piatto, appunto un servizio giornalistico.
Per fortuna questo esperimento è durato lo spazio di un mattino, ma è suonato come un pericoloso precedente o un tentativo di assaggio. Scopo della pubblicità, in un rinnovato e invalente clima di infotaitment, è quello di sostituire il giornalismo con lo spettacolo e rendere anche le notizie una forma di pubblicità. Da gridare come merci in vetrina, non diversamente del resto da quanto si vede già in certi telegiornali americani.