venerdì 21 febbraio 2014

Cesare Beccaria, una firma siciliana



A Casalvecchio Siculo, mille anime sui primi contrafforti dei Peloritani, un appartato insegnante di diritto, Saro Lo Re, ha ritrovato in casa di uno studioso di stampo ottocentesco dedito a studi degni di un’altra epoca, un’editio princeps di Dei delitti e delle pene: non solo una rarità, ma un documento prezioso dal momento che la ricerca storica non è ancora riuscita a stabilire se il manifesto italiano dell’illuminismo (uno dei capolavori letterari e filosofici che negli ultimi secoli l’Europa abbia più ammirato e soprattutto adottato), sia stato opera di Cesare Beccaria o di Pietro Verri. L’opinione prevalente propende per la prima ipotesi, ma essa non vale molto più di quella contraria. A favore di Beccaria gioca lo stile, che appare più identitario e meno vicino a quello dotto e ricercato del maggiore dei tre fratelli Verri. Ma dal lato del fondatore del Caffè, giornale che alimentò il riformismo illuminista e al quale aderì anche Beccaria, depone il fatto che fu lui l’ispiratore del pamphlet avversato dal regime austriaco non meno che dalla Chiesa cattolica dalla quale fu messo infatti al bando due anni dopo la pubblicazione. 
Le idee di Beccaria si ritrovano peraltro anche in Osservazioni sulla tortura di Verri e soprattutto appaiono il frutto e la sintesi degli articoli usciti sul Caffè e pubblicati da diversi pensatori lombardi. C’è quindi una terza ipotesi, forse la più verosimile: che il libro sia l’opera collettiva di un cenacolo nato nell’ambito dell’Accademia dei Pugni promotrice del Caffè. Quanto almeno alle sue idee.
Fatto è che per Dei delitti e delle pene Beccaria e Verri, grandi amici e spiriti di uguale sentire, litigarono violentemente rinfacciandosi il merito reale dell’opera e rompendo così un sodalizio sorto sin dal momento in cui il marchesino Beccaria era stato cacciato di casa e aveva trovato riparo e accoglienza proprio in quella del conte Verri. Né porta argomenti contro Beccaria la circostanza per cui divenne in seguito funzionario di alto grado del governo austriaco operando per quel regime che il “suo” libro intendeva appunto accusare. 
Ma perché non è stato possibile accertare con sicurezza l’autore di Dei delitti e delle pene? Perché il libro che scosse la coscienza continentale, denunciando al mondo più illuminato l’ignominia della pena di morte e ben distinguendo il reato dal peccato quando la Chiesa aveva sempre congiunto le due colpe, questo libro gigantesco uscì anonimo nel 1764, nello stesso anno in cui iniziò le pubblicazioni Il Caffè, proprio per non incorrere nella censura temporale e celeste. 
Secondo la dottrina dominante fu pubblicato in francese essendo la lingua più diffusa in Europa, segno quindi del proposito dell’autore di dare all’opera il senso di arma ideologica e di strumento di cambiamento civile e politico; e fu stampato in una tipografia di Livorno gestita da un intellettuale riformista, Marco Coltellini. 
Il libro girò l’Europa, arrivò nelle principali corti e servì innanzitutto nel Granducato di Toscana ad abolire la pena di morte. Caterina di Russia lo adottò, i filosofi dell’Enciclopedia lo ammirarono svisceratamente tanto che Diderot si offrì per una prefazione in una edizione successiva. Negli Stati Uniti fu visto addirittura alla stregua di uno statuto.
Arrivò anche in Sicilia penetrando le cortine borboniche e fu anche qui ritenuto come ispirato da una supercoscienza civile fuori dal tempo, avanti di cento anni. In realtà Cesare Beccaria era ben altro carattere. Soggetto frequentemente preda di crisi di panico, introverso fino alla timidezza, del tutto incapace di parlare in pubblico e gelosissimo della moglie, la seconda, fino a sbottare in eccessi di collera, fu quello che, invitato dagli enciclopedisti a Parigi, ci andò insieme con Alessandro Verri dopo aver vinto l’angoscia per il viaggio, ma piantò l’amico per tornarsene a Milano lasciando che proseguisse da solo per Londra, che era molto più distante di Parigi. 
Pietro Verri invece era tutt’altro tipo. Ed è stata questa differenza di temperamento a instillare il dubbio che autore del manuale del moderno Stato illuminato potesse essere davvero quel pavido di Beccaria. Sul quale peraltro pesa un altro mistero. Personale stavolta. La primogenita Giulia, futura madre di Alessandro Manzoni, fu praticamente da lui ripudiata e abbandonata in collegio perché creduta figlia illegittima di un tradimento della prima moglie, una siciliana di origini spagnole. Ma anche Giulia avrà lo stesso destino della madre quando sarà sospettata di avere avuto una relazione con il più giovane dei fratelli Verri dal quale sarebbe in realtà nato l’autore di I promessi sposi.
Il più grande dei Verri, Pietro, non deve dal canto suo avere smentito con soverchia forza la supposizione che fosse stato Beccaria a scrivere Dei delitti e delle pene. Sicché il dilemma è stato consegnato agli storici, che però non hanno saputo fare un gran lavoro. Chi fu dunque a scrivere la bibbia italiana dell’illuminismo, il solo libro che influenzò in profondità l’Europa e letto il quale Voltaire si inchinò in un commento sperticato, non sapendo però se rivolgersi a Beccaria o a Verri?
Un aiuto a trovare risposta viene appunto da Casalvecchio Siculo, dove la copia ritrovata del libro riporta sul frontespizio (sotto il titolo, scritto a mano e con inchiostro nero, in caratteri intesi a imitare quelli del titolo) il nome, anzi il solo cognome, di Beccaria: come se il proprietario del libro avesse voluto sciogliere una questione storica e stabilire per conto suo la paternità. Ma nulla dimostra che l’aggiunta sia opera del possessore, che essendo morto non può testimoniare. Può essere infatti presente in tutte le altre copie distribuite quantomeno in una determinata area, il Regno delle Due Sicilie per esempio, da pochi decenni affrancato all’Austria, a opera di quanti erano ovviamente dalla parte di Beccaria. 
L’aggiunta a mano comunque prova che la prima edizione, appunto quella del 1764, uscì anonima. Ma non in lingua francese, come prova il testo interno in italiano: dunque a confutazione di un convincimento generale. Si trattò forse di una seconda e concomitante edizione, nel presupposto che l’autore avesse voluto parlare agli italiani e agli stranieri contemporaneamente? Improbabile, vista la moltiplicazione dei rischi legati alla censura. 
Il mistero si infittisce ancora di più se si bada al luogo dove il libro è stato stampato: “in Monaco”. Ma quale Monaco? La città bavarese o il principato che trent’anni dopo sarà momentaneamente annesso alla Francia? Probabilmente il secondo perché più vicino al centro nevralgico dei sentimenti illuministici. Eppure la lezione accolta da tutte le fonti indica Livorno come sede della stamperia della prima edizione. Il cui anno, in cifre romane, segna il 1764, dato questo universalmente condiviso e accertato. Né possono esserci dubbi, perché un anno dopo, nel 1765, esce a firma di un religioso, Ferdinando Facchinei, un durissimo libello contro le tesi del libro in materia di uguaglianza e pena di morte.
A cosa dunque attribuire le difformità contenute nella copia ritrovata a Casalvecchio e oggi custodita da Lo Re? Il testo è identico a quello canonico e riconosciuto, mentre cambia il solo contenuto del cosiddetto colophon nella parte che riguarda non soltanto l’aggiunta a mano ma anche altri elementi, primo fra tutti il luogo di stampa e subito dopo la lingua adottata. 
Nelle successive edizioni (l’editore di quella del 1786 parla di una decina in quindici anni, ma poi afferma che quella che ripropone è la terza: altra misteriosa incongruenza) il nome di Beccaria appare solo nel 1834 con una nota biografica dove si legge un passo che comprova la partecipazione se non la titolarità di Verri: “La celebratissima opera fu composta nelle stesse stanze di Pietro Verri che rientrando la sera si faceva premura di esaminare con Beccaria il travaglio che aveva fatto nella giornata e perfino di trascriverlo allorché il troppo numero de’ pentimenti e delle cancellature dell’originale il rendeva necessario”. 
E’ questa, indicata come “diligentemente corretta” (a riferimento forse, finalmente, della rivelazione del suo autore) l’edizione stampata a Livorno, essendo quella del 1786 uscita a Parigi. Allora la copia casalvetina potrà costituire forse un reperto utile a riaprire una questione che la ricerca storica ha chiuso troppo sbrigativamente e senza reali certezze.