mercoledì 5 marzo 2014

"La grande bellezza", un film fuori stagione


Perché La grande bellezza non è piaciuto l’anno scorso agli italiani e ha stregato quest’anno gli americani? Cosa gli italiani non hanno capito che invece hanno colto gli americani? Il gusto dei secondi si è forse rivelato superiore quando, proprio in fatto di gusto e di stile, i primi hanno fatto loro sempre scuola?
E ancora una domanda, dopo i nove milioni di italiani radunati davanti al televisore: si sono lasciati conquistare dal film rivelato Oltreoceano o sono rimasti irretiti piuttosto dalla conquista stessa dell’Oscar assecondando così un’americanata modaiola? 
La critica e il pubblico americani hanno profuso elogi parlando di genio italiano, di capolavoro assoluto, di puro cinema; Di Caprio è stato addirittura visto urlare “Italian movie! Italian movie!” con le braccia al cielo a invocare una divinità abscondita; la stampa Usa si è inchinata reverenziale e unanime all’espressività di Servillo e al talento di Sorrentino: sicché il cinema italiano sembra essere tornato ai fasti del neorealismo e allo sperimentalismo di Fellini. Senza però che nessun italiano lo abbia capito né all’uscita del film né dopo. 
Di colpo allora gli americani possono pretendere di dirci ciò che è bello? O forse il fossato che, in campo estetico e artistico, ha sempre separato il made in Italy e il made in Usa si è ancora di più allargato?
Probabilmente le cose non sono mai cambiate per cui il gusto italiano continua a prevalere su quello statunitense dettandone l’educazione e la crescita. Non potrebbe del resto essere diversamente, se la storia ha un peso sulla qualità culturale di un Paese e se è vero che nessuna città può dirsi d’arte se non ha almeno cinquecento anni di vita, anagrafe che non c'è town Usa che possa vantare nemmeno per un tempo inferiore. E' anche vero che il senso italiano della bellezza non arriva a concepire che essa va mantenuta, per cui vediamo impotenti e indifferenti Pompei cadere a pezzi: magari lo stesso giorno in cui Sorrentino conquista la statuetta. Ma il dominio italiano è certamente fuori discussione. Perché? La risposta va piuttosto cercata nel film stesso. Rivediamolo meglio. 
L’ultimo Oscar italiano quale film straniero è stato quello di Benigni. Il suo La vita è bella ebbe diciassette anni fa uno strepitoso e immediato successo proprio in Italia e trovò poi conferma a Los Angeles da parte dell’Academy. Anch’esso affrontava il tema della bellezza. Ma su altri e ben diversi piani. Benigni propose una grande metafora dell’amore in un tempo di orrori e instillò nella coscienza comune un’idea di bellezza fondata su elementi reali, calata in un contesto dov’era facile metterla a confronto con l’opposta idea di bruttezza della quale tutti avevano conoscenza o avevano fatto addirittura esperienza. 
La vita è bella resta un film autenticamente italiano perché restituisce pagine di storia italiana e si riconduce alla grande vocazione realistica del nostro cinema, rivisitata in chiave comica e parodistica. Il più grande sforzo che richiede alla sua comprensione, interpretare cioè il primato della vita sulla morte nel segno del sacrificio per amore, è la percezione della metafora. 
La grande bellezza impone invece l'intelligenza di ben altra figura retorica, il simbolismo, fondato su segni semantici difficilmente rilevabili. La bellezza che indica Sorrentino non è salvifica come quella di Benigni ma mortifera - ancorché la morte sia l’esito del primo film. Ma lì è una morte che non si vede, consumata dietro un muro, mentre qui la morte, presente nel presupposto stesso del film, è nell’impossibilità del protagonista, Jep Gambardella, ad affrontare la vita, preda di un cupio dissolvi che vuole mutare da individuale a generale. 
Nel suo progetto di farsi padrone della mondanità per essere arbitro anche e soprattutto, in un generale disegno di cancellazione, del fallimento delle feste notturne romane, celebrate sulle terrazze secondo il più tipico stereotipo della jet society capitolina, cogliamo una coazione alla perenzione che nasce da un mal di vivere di tipo montaliano frutto di una condizione esistenziale e di una crisi interiore: l’incapacità di tornare a scrivere e l’impotenza a rendersi parte del proprio mondo e del proprio tempo. 
Gambardella, scrittore di un solo romanzo, giornalista alla Signorini in salsa napoletana, è l’ultimo inetto della famiglia europea dei Des Essentes e degli Oblomov, di quella italiana dei Pietro Rosi di Federigo Tozzi, dei Rubé di Giuseppe Borgese, degli Zeno di Italo Svevo fino agli indifferenti di Moravia, agli Alessio Mainardi di Vittorini e ai giovani estenuati di Brancati: tutti figli indolenti, anti-superomisti e antidannunziani della convenzione antinaturalistica primonovecentesca che scaldò lo psicologismo pirandelliano e proustiano e ruppe con il realismo. Si era allora nel pieno effetto dell’istanza novecentesca che avrebbe di lì a poco ispirato la coscienza postmoderna dell’irrazionalità e della fuga dalla realtà. 
Ma la Seconda guerra mondiale reintrodurrà, soprattutto nel cinema, lo spirito documentale della testimonianza e della presenza nel proprio tempo contro recidivanti rigurgiti escapisti e, rinverdendo il mito dell’adolescenza e della calviniana “smania di raccontare” storie vere, getterà le basi per il ritorno alla modernità e quindi al realismo: quello che oggi costituisce l’elemento di sbocco delle spinte postmoderne e di ogni tentazione simbolista. 
Un Jep Gambardella che soffre di uno spleen fuori tempo, uomo déraciné e disabile, non può vivere ed è inattuale in un’epoca votata al realismo, al dato crudo e nudo, lo stesso che Benigni ha invece saputo cogliere col suo film metaforico ma profondamente vero: dove Guido Orefice muore non visto e il figlio Giosuè può fare dire a una voce finale fuori campo: “Questa è la mia storia, questo è il sacrificio che mio padre ha fatto, questo è stato il suo regalo per me”, una storia nella quale rintracciare la storia di tutti, laddove invece Gambardella si abbandona a una inanità prodromo di un'autodistruzione che è soltanto sua entro un mondo intento a vorticare su assi epicurei e irenici che da italiani non riusciamo più a riconoscere né ad accettare. 
Sorrentino ha fatto un film postmoderno in un tempo tornato moderno: talmente postmoderno da apparire estraneo, perdippiù arricchito, o appesantito, da trovate che sono un misto di derive hollywoodiane e soprattutto, per l’espressionismo cromatico, i balli di gruppo, gli abiti sgargianti, bollywoodiane. Il mistilinguismo (napoletani che giudicano Roma ma parlano nel loro accento), l’astrazione di Roma (colta solo per scorci ma eletta a paradigma del mondo e del nostro tempo), l’assenza di una vera storia che sia narrabile e possa entusiasmare, l’improbabilità di certe figure come l’ultracentenaria suora simulacro di Maria Teresa di Calcutta, il prelato gastronomo o la direttrice nana, concessioni a una rivisitazione felliniana rimasta però sotto misura, il tentativo di scimmiottare certo Sordi nel proposito di stabilire il nuovo carattere degli italiani ridotti tuttavia alla sola anagrafe romana, ma soprattutto - ragione decisiva - la partecipazione, Verdone a parte, di attori dello stracult e del cine-panettone, sconosciuti in America ma ben noti e disdegnati in Italia, hanno fatto di La grande bellezza il portato massimo di un gusto postmoderno che semplicemente non c’è più. E questo fuoriscala la critica e il pubblico italiani lo hanno capito subito bocciando il film al suo apparire. Salvo poi ripensarci e trovarsi adesso tutti insieme a disputarsi il primo applauso e il comparaggio. Ma questa è un’altra, vecchia, questione.