giovedì 10 aprile 2014

I giornali, la merce e la platea



«Le persone si istupidiscono all’ingrosso e rinsaviscono al dettaglio». L’intuizione di Wislava Szymborska può essere posta alla base della logica che ispira la stampa. La quale riconosce come primarie notizie che per ogni individuo sono invece di secondaria importanza.
La sfera di interessi del singolo è costituita da cerchi concentrici: il più grande è quello dei propri bisogni, poi viene quello della sicurezza personale e della salute, quindi quello sociale, aperto cioè a istanze altruistiche, di seguito si incontra il cerchio che comprende l’interesse a essere informati sui fatti del mondo e infine troviamo il cerchio più piccolo che riguarda la cultura e il piacere di procurarsi appagamenti spirituali. Non diversamente, la dottrina giuridica sulla natura del bene distingue, in questa stessa prospettiva, il bene necessario da quello utile e da quello voluttuario. 
Quando l’individuo acquista la qualità di lettore, trova nella stampa il modo di appagare gli interessi compresi negli ultimi due cerchi, e ciò fa solo dopo aver soddisfatto quelli dei cerchi più grandi: non si arriva a un cerchio più piccolo senza in realtà passare prima da uno più grande. Non ha nessun interesse al riarmo atomico o alla guerra mediorientale chi non abbia lavoro o non goda di buona salute. Né personalmente gli interessa granché l’aumento dei prezzi o l’espandersi di una epidemia se vede questi mali collettivi inferiori e meno urgenti rispetto a quanti lo assillano. Rimedi ai quali mali non gli vengono certo dalla stampa, perché la stampa non offre soluzioni ai problemi individuali dal momento che non è interessata, come prodotto commerciale, se non a un mercato più grande possibile, a una platea cioè di lettori che formino una moltitutidine e quindi in grado di costituire una «opinione pubblica». Termine ambiguo ma esatto: come opinione pubblica viene intesa la stampa, la quale invece trae forza dall’opinione pubblica che essa stessa contribuisce a formare, cioè dal pubblico dei lettori, dimodoché un giornale è più autorevole quanto più consenso, cioè quanta più opinione pubblica, riesce a creare per sé. 
Ma l’opinione pubblica non è appunto che il pubblico, il genere di umanità che può essere assimilato a una costellazione perché non esiste di per sé. La costellazione è inesistente in natura, essendo una costruzione ideale inventata dall’uomo. Esistono piuttosto le stelle singole, nella cui posizione nulla cambia se cambiano da una costellazione a un’altra. 
Il pubblico sta quindi al mercato come l’opinione pubblica sta alla stampa e come la stella alla costellazione. L’individuo, il lettore, è indifferente al mercato e alla stampa, è una particella elementare e come tale agisce secondo leggi proprie e autonome, che possono ben distinguersi da quelle di un altro individuo. Il processo di globalizzazione che si espande progressivamente come l’universo ha isterilito l’individuo come tale, trasformando tutto ciò che è privato in pubblico, sfera solo sulla quale è possibile realizzare il consenso, che è l’anima vera del commercio e viene oggi ancor prima del profitto come elemento essenziale. 
La globalizzazione del nostro tempo ha unificato i prodotti, ma una globalizzazione naturale c’è sempre stata ed è quella che riguarda non i prodotti ma la «materia prima». Prendiamo i contadini: da quando il mondo è nato, la terra è sempre stata dappertutto uguale richiedendo forme di coltivazione che ogni contadino, la figura sociale più isolata che si conosca, ha conosciuto e applicato individualmente. Teseo viene invitato dagli dei a seguire una vacca finché essa non si fermi a indicare il luogo dove dovrà fondare Tebe cominciando dalla coltivazione della terra. Quando gli uomini finiscono di cacciare per nutrirsi e traggono sostentamento anche dai frutti della terra coltivata, cambiano era ma non cambiano natura. Rimangono individui. Sicché la globalizzazione naturale è il portato di nuove acquisizioni scientifiche e di mercato che non sviliscono però l’identità individuale. 
Oggi questa identità si è persa e gli uomini sono diventati merce al pari dei prodotti che essi stessi, collettivamente, producono e forniscono. Anche i giornali trattano i lettori come platea e si occupano di riempire i cerchi più piccoli. Forniscono informazioni e non servizi. Dirigono i gusti e le emozioni ma non offrono soluzioni ai problemi individuali. Creano consenso al fine di incrementare le rendite pubblicitarie e mentre si impegnano a raccontare storie singole, vite individuali, vicende personali, in realtà costituiscono casi esemplari, modelli validi in senso generale, essi stessi prodotti da mettere in vendita o da designare come mezzi di confronto o di contrasto sul piano politico. 
Preso nelle pene dei cerchi più grandi, l’individuo da un lato si trova risospinto in una corrente che non controlla e da un altro cerca in tutti i modi di salvarsi dalla deriva e di riguadagnare la propria identità. Cosicché come membro del pubblico, ingranaggio del consenso, elemento dell’opinione pubblica, istupidisce all’ingrosso, mentre come persona singola rinsavisce. E rinsavendo prova ad affrancarsi dall’attrazione dei mezzi di informazione riconquistando uno spazio esclusivo, una capacità che gli consenta di gestire i propri cerchi autonomamente partendo da quello più grosso e non, come vuole la stampa, da quello più piccolo. La crisi della stampa va vista anche nell’ottica di questi milioni di scontri individuali che ogni giorno ogni persona affronta e che formano una possibile «opinione privata» contrapposta a quella pubblica. 
Contro la logica della invalente «swarm intelligence», l’intelligenza dello sciame che rende intelligenti non le singole formiche ma una colonia di formiche, l’uomo di oggi si sforza di recuperare, nel campo della comunicazione, l’ideale di Oreste che fingendosi uno straniero può dare a Clitennestra notizia della morte di se stesso. Nemmeno nella reggia le notizie venivano portate a conoscenza se non in forma privata. Certo falsificate. Ma non è che oggi la stampa dica il vero. Agisce nello spirito di Rousseau che scriveva le sue Confessioni non per dire la verità ma per farla credere.