Con Il capitale umano viene ribadito che la vita di un uomo può avere un prezzo, il quale dipende non solo dall'aspettativa di vita e da quanto un individuo sia capace di monetizzarla, ma anche dagli affetti che lo legano ad essa.
Questo aspetto del film di Virzì - e più ancora del romanzo di Stephen Amidon - è stato pressoché ignorato in sede di critica, avendo essa preferito dare rilievo a questioni di natura macroeconomica riferite alla distribuzione della ricchezza, alle sperequazioni sociali tra una provincia e l'altra (la Brianza come eccezione negativa), ai conflitti tra famiglie, tra persone e con se stessi.
Eppure quello che, per dare una cifra a un indennizzo dopo la morte colposa di un ciclista travolto da un'auto, i periti assicurativi chiamano "capitale umano" costituisce, dando il titolo al film e al libro, un archetipo della stessa natura umana e del suo heideggeriano essere nel mondo: non siamo fatti per vivere a scopi banausici ma anche spirituali. Siamo legati alla vita e dunque acquisiamo un valore che può valere un risarcimento a favore di chi ci perde quanto più stretti rapporti d'amore possiamo vantare. Questo senso della vita, così sottile e vero, che Amidon prima e Virzì dopo avrebbero dovuto cogliere resta nell'uno e nell'altro solo un enunciato.
Solo una scritta finale ci rivela il significato del titolo perché il film nulla ci dice del ciclista la cui famiglia ottiene un risarcimento in denaro: spiegandoci cos'è per le assicurazioni il capitale umano, manca di precisare quali e di che entità sono gli affetti che contribuiscono a determinare la somma. Salvo fornire una equivoca indicazione nel manifesto del film con l'aggiunta di un codice a barre dall'indistinto significato merceologico che fa pensare al capitale umano ridimensionato alla sola sfera dell'esein, dell'essere gettati nel mondo.
Senonché proprio questo, in base al titolo, il film avrebbe dovuto raccontarci: gli affetti del ciclista. Che invece rimangono appena citati quando intravediamo i parenti piangere al suo capezzale in ospedale. Il film racconta invece un'altra storia, anzi più storie: quelle dei personaggi che in qualche modo ruotano, consapevoli o no, attorno alla morte del ciclista. E lo fa ricorrendo alla molteplicità delle focalizzazioni, strumento narrativo già largamente noto, ma qui adottato non per dare una versione diversa dai fatti secondo il punto di vista di chi li vive ma semplicemente per offrire appunto ogni prospettiva della narrazione, quasi a titolo di giustificazione degli atti che ciascuno è indotto a compiere. Invale insomma il perché dei fatti anziché i fatti stessi.
Questa impostazione aggiunge poco alla migliore comprensione della vicenda e si rivela un espediente solo virtuosistico, di una narrazione con più io narranti e attanti, inutilmente pluridiegetica. Se Amidon e Virzì non ci dicono qual è il capitale del ciclista e non ci fanno conoscere quali sono stati i suoi affetti, la cifra finale di 218,976 mila euro di risarcimento può sembrarci una miseria o un'enormità.
Il gioco combinatorio cui indulge Virzì, che si compiace di restituire un'Italia dove il brianzolo Giovanni Bernasca (anticipazione profetica del genovese Giovanni Berneschi finito in galera per eccesso di cupidigia e spregiudicatezza) è il rovescio dell'altrettanto brianzolo Dino Ossola, il primo spietato lupo e il secondo ingenuo agnello della finanza, ma entrambi figli di una terra e di un sistema che vede nei soldi il primo interesse dell'uomo, si trasforma in un'operazione che mentre vuole denunciare una stortura ne dà solo una recensione. Il Connecticut di Amidon, il quarto Stato più ricco d'America, con un reddito medio pro capite di 75 mila dollari, non è certamente la Brianza per cui l'equivalenza non regge né quindi la trasposizione. Ma a volere ambientare in Italia la storia di Amidon, la Brianza si presta alla meno peggio a interpretare la dismisura, il senso di disumanità e la febbre di denaro che ispirano il romanzo. Il quale è decisamente superiore.
Questo aspetto del film di Virzì - e più ancora del romanzo di Stephen Amidon - è stato pressoché ignorato in sede di critica, avendo essa preferito dare rilievo a questioni di natura macroeconomica riferite alla distribuzione della ricchezza, alle sperequazioni sociali tra una provincia e l'altra (la Brianza come eccezione negativa), ai conflitti tra famiglie, tra persone e con se stessi.
Eppure quello che, per dare una cifra a un indennizzo dopo la morte colposa di un ciclista travolto da un'auto, i periti assicurativi chiamano "capitale umano" costituisce, dando il titolo al film e al libro, un archetipo della stessa natura umana e del suo heideggeriano essere nel mondo: non siamo fatti per vivere a scopi banausici ma anche spirituali. Siamo legati alla vita e dunque acquisiamo un valore che può valere un risarcimento a favore di chi ci perde quanto più stretti rapporti d'amore possiamo vantare. Questo senso della vita, così sottile e vero, che Amidon prima e Virzì dopo avrebbero dovuto cogliere resta nell'uno e nell'altro solo un enunciato.
Solo una scritta finale ci rivela il significato del titolo perché il film nulla ci dice del ciclista la cui famiglia ottiene un risarcimento in denaro: spiegandoci cos'è per le assicurazioni il capitale umano, manca di precisare quali e di che entità sono gli affetti che contribuiscono a determinare la somma. Salvo fornire una equivoca indicazione nel manifesto del film con l'aggiunta di un codice a barre dall'indistinto significato merceologico che fa pensare al capitale umano ridimensionato alla sola sfera dell'esein, dell'essere gettati nel mondo.
Senonché proprio questo, in base al titolo, il film avrebbe dovuto raccontarci: gli affetti del ciclista. Che invece rimangono appena citati quando intravediamo i parenti piangere al suo capezzale in ospedale. Il film racconta invece un'altra storia, anzi più storie: quelle dei personaggi che in qualche modo ruotano, consapevoli o no, attorno alla morte del ciclista. E lo fa ricorrendo alla molteplicità delle focalizzazioni, strumento narrativo già largamente noto, ma qui adottato non per dare una versione diversa dai fatti secondo il punto di vista di chi li vive ma semplicemente per offrire appunto ogni prospettiva della narrazione, quasi a titolo di giustificazione degli atti che ciascuno è indotto a compiere. Invale insomma il perché dei fatti anziché i fatti stessi.
Questa impostazione aggiunge poco alla migliore comprensione della vicenda e si rivela un espediente solo virtuosistico, di una narrazione con più io narranti e attanti, inutilmente pluridiegetica. Se Amidon e Virzì non ci dicono qual è il capitale del ciclista e non ci fanno conoscere quali sono stati i suoi affetti, la cifra finale di 218,976 mila euro di risarcimento può sembrarci una miseria o un'enormità.
Il gioco combinatorio cui indulge Virzì, che si compiace di restituire un'Italia dove il brianzolo Giovanni Bernasca (anticipazione profetica del genovese Giovanni Berneschi finito in galera per eccesso di cupidigia e spregiudicatezza) è il rovescio dell'altrettanto brianzolo Dino Ossola, il primo spietato lupo e il secondo ingenuo agnello della finanza, ma entrambi figli di una terra e di un sistema che vede nei soldi il primo interesse dell'uomo, si trasforma in un'operazione che mentre vuole denunciare una stortura ne dà solo una recensione. Il Connecticut di Amidon, il quarto Stato più ricco d'America, con un reddito medio pro capite di 75 mila dollari, non è certamente la Brianza per cui l'equivalenza non regge né quindi la trasposizione. Ma a volere ambientare in Italia la storia di Amidon, la Brianza si presta alla meno peggio a interpretare la dismisura, il senso di disumanità e la febbre di denaro che ispirano il romanzo. Il quale è decisamente superiore.