mercoledì 9 luglio 2014

La scienza viene prima della conoscenza


Le prime lampadine elettriche erano a forma di fiamma perché non potevano che essere un aggiornamento delle torce e delle candele, di cui molte riproducono ancora oggi addirittura la cera che cola. Quando l'uomo ha inventato l'automobile ha pensato alla carrozza ed ha chiamato "cavalli" i giri del motore. Nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si modifica e rifà.
 L'aereo è stato inventato pensando a un uccello sicché "a volo d'uccello" erano chiamate le stampe di un panorama visto dall'alto. Lo schermo di cinema e televisione è stato concepito come un quadro da vedere da breve distanza e lo smartfhone non è che un piccolo computer con un display. La moto e la bicicletta non sono che gli eredi del cavallo. La penna ad inchiostro non è che la nuova versione della penna di gallina.
Diceva Galilei che la natura non fa salto per cui un'invenzione è l'evoluzione di qualcosa che già esiste e della quale rappresenta il passo successivo, quello più naturale e immediato. Sotto questo aspetto l'uomo è un robot capace di migliorarsi, dotato di un'intelligenza più emulativa che creativa. 
Se così non fosse molti prodotti sarebbero stati "scoperti" già da secoli. Impossibile perciò che dal cavallo si passasse all'automobile senza prima aver inventato la carrozza, altrimenti l'auto sarebbe stata ben diversa da quella che conosciamo. 
La scienza, che parte sempre dalla sua ultima acquisizione, è dunque progresso e avanza per tappe obbligate, così si possono già prevedere, avveniristicamente, auto volanti quali evoluzione dell'aereo e dell'autovettura, case girevoli per mutare panorama ed esposizione al sole, droni che trasportano piccola merce e più avanti anche grande, laser tascabili come armi capaci di provocare guasti irreparabili nel corpo umano...
Così, ogni epoca si è sentita la più tecnologica e moderna, anche l'età del bronzo rispetto a quella del ferro, ma è sempre l'ultima, quella contemporanea, la più avanzata: per cui i giganti siamo noi e non i grandi del passato sulle cui spalle dovremmo sentirci, perché conosciamo tutto e fruiamo di ogni scoperta della scienza. La quale ci giunge nel suo stato scientifico e quindi con un nome scientifico, come sarebbe di una pianta sconosciuta. Poi, via via che la scoperta si diffonde, prende un nome prima comune e quindi proprio. Molti gli esempi possibili: i telefonini al loro apparire furono chiamati cellulari, derivando dall'indicazione fornita al pubblico dai costruttori che conoscevano le celle fonte della loro invenzione; solo dopo sono stati chiamati telefonini per distinguerli dai telefoni, quindi hanno cambiato il nome in smartphone e poi nelle varie marche. Così è stato anche per internet, oggi chiamata rete. Fino a qualche anno fa una ricerca online si diceva fatta su internet, mentre oggi - divenuta internet una conoscenza comune - si precisa il nome del sito: non più "l'ho letto su internet", ma "l'ho letto su wikipedia". 
Questo fenomeno di acquisizione progressiva dei nomi da dare alle nuove scoperte scientifiche, che ci arrivano nude e innominate, lo ritroviamo nell'ambito della comunicazione telematica. Nelle chat e negli Sms, come anche nelle email, non si può che scrivere, eppure usiamo una terminologia che appartiene alla comunicazione orale, quella alla quale chat ed Sms più si avvicinano, sicché scriviamo "ho detto" anziché "ho scritto" e arriviamo al paradosso di chiedere "cosa hai detto?" o "non ho capito cosa hai detto" quando ci basterebbe rileggere. Tendiamo cioè a riconoscerci nell'ambito a noi più familiare: in questo caso il telefono, per cui chattiamo come se parlassimo al telefono. Non è stata ancora trovata la terminologia appropriata, propria appunto, che definisca l'atto di chattare, così ci serviamo di definizioni provvisorie ed estemporanee come quando "messaggiamo". Un caso particolare: mentre al telefono diciamo "pronto?" per richiamare l'attenzione, in chat o in what's scriviamo "ci sei?" per stabilire una presenza.
Nel Cratilo Platone spiega che i nomi nascono grazie a quanti riescono a introdurre una nuova idea nelle lettere di una parola e nelle sillabe. Altrimenti detto, un nome deve richiamare un'immagine, esserne la rappresentazione. Succede come quando non ricordiamo il nome esatto di una cosa o di un atto. Per riuscirci evochiamo l'immagine che suggerisce. Se per esempio vogliamo dire "evoluzione" e, cercando un sinonimo che più si avvicini, non riusciamo ad andare oltre alla parola "cambiamento", che però non ci soddisfa, ricorriamo all'immagine mentale di una crescita e crediamo di vedere appunto qualcosa che si riproduce e che aumenta. Fatto questo, la parola "evoluzione" si presenta alla nostra mente con la proprietà semantica che stavamo cercando.
Nomina sunt consequentia rerum, ma il tempo che la corrispondenza si stabilisca non dipende né dai nomi né dalle cose da nominare ma dagli uomini chiamati a fare un'operazione mentale nella quale devono prima avere chiare le cose e poi dare ad esse un nome: così come del resto fa Adamo quando Dio lo invita a nominare le cose del creato. Sicché si può dire meglio che i nomi sono la definizione che si dà alla conoscenza che si ha delle cose. Dove la conoscenza, che appartiene a tutti, segue la scienza che è frutto di pochi. 
Ma anche la scienza si serve della conoscenza, tant'è che usa la lingua più nota e diffusa, cosicché ci ritroviamo - fatto del tutto nuovo e figlio del nostro tempo globalizzato - a chiamare, molto più che in passato, i prodotti scientifici non in italiano ma in inglese: tablet, smartphone, app... Non è certamente auspicabile tornare alle logiche del fascismo che chiamava i bar "taverne potorie", ma è vero che la nominazione appartiene al bagaglio identitario di una comunità che ne condivide anche i termini, una comunità che si va allargando al mondo intero e che uniforma gusti, comportamenti, termini e conoscenza.