mercoledì 6 agosto 2014

Giudici infallibili? Dipende dalle leggi


Il progetto di disciplina della responsabilità civile del giudice chiama in causa una categoria, forse l'unica, che non ha motivo alcuno di protestare perché la possibilità di errore nell'attività giudiziaria è legata solo al rispetto o meno della legge.
Mentre un medico può sbagliare perché l'esercizio della sua professione è autonomo rispetto alla conoscenza che ha di essa in termini di preparazione e competenza, un giudice, anche inquirente, non può invece mai sbagliare perché la sua capacità si misura nel grado di applicazione della legge, per cui se un'ingiustizia viene commessa ai danni di un privato, la colpa non è mai del giudice ma della legge: sempreché egli l'abbia eseguita senza interpretarla e non abbia seguito un ragionamento induttivo anziché deduttivo. 
La sua responsabilità, civile come penale, non è dunque nei confronti del cittadino quanto della legge che è tenuto ad osservare.
Imputargli una responsabilità personale, come per qualsiasi figura professionale, dall'ingegnere all'avvocato, per le quali vale la competenza e non lo zelo richiesto al giudice, è come accusare un arciere che non faccia andare a destra una freccia scoccata a sinistra: se l'esecuzione è conforme al precetto, il risultato non può dipendere dalla discrezione dell'artefice. 
Se dunque un giudice si tiene al dettato della legge non può mai sbagliare. E ciò perché non c'è norma che non sia, prima di entrare in vigore, sottoposta a una valutazione circa la sua "natura giuridica", ambito nel quale nasce la cosiddetta dottrina, e non sia altresì sperimentata nella sfera empirica della cosiddetta giurisprudenza, cioè nel campo delle sentenze e dei pronunciamenti giudiziari. 
Dottrina e giurisprudenza cooperano alla formulazione di ogni norma classificandola la prima e sperimentandola la seconda, cosicché il giudice non debba che conoscerla nella sua essenza e nella sua portata e renderla esecutiva. E' vero che il giudice (ma non il magistrato) è tenuto a interpretare la legge, formandosi un suo convincimento chiamato "libero", ma è anche vero che ciò il giudice è costretto a fare in mancanza di una giurisprudenza consolidata e di una dottrina che non abbiano approfondito fino in fondo la natura dell'elemento "giuridico".
Per cui se una responsabilità è possibile mettere in capo al giudice è quella che promani da nome di recente introduzione, non ancora giuridicamente attestate e non ancora giudiziariamente testate. Ma il progetto Orlando, così come la legge Vassalli, prescinde dalla sanità di una legge e dalla sua validificazione, che richiede sempre studio e tempo, e chiama il giudice a rispondere personalmente di un fatto che più che essere altrui e allotro, dipendendo da fattori oggettivamente estranei non solo a lui ma anche allo stesso legislatore.
Ora che protesta contro le libertà al cittadino contenute nel progetto di riforma, l'Associazione nazionale magistrati sembra riconoscersi una teorica responsabilità e comportarsi come se i ladri - absit iniuria verbis - si costituissero in comitato e volessero negoziare con lo Stato l'entità delle pene in caso di reato. Il problema viene affrontato impedendo ai ladri di rubare. Allo stesso modo, i giudici non dovrebbero trattare con il governo questioni che riguardano l'incidenza del cittadino nella sua sfera - responsabilità diretta, filtro, cumulo disciplinare - ma chiedere che siano messi nelle condizioni di non sbagliare, semplicemente rendendo l'ordinamento normativo insindacabile, lavoro che spetta al legislatore innanzitutto. 
In subordine e nelle more di questi interventi di consolidamento all'apparato legislativo e di radicamento di esso, i giudici dovrebbero chiedere che sia appunto il legislatore a rispondere dei loro errori. Come succede al farmacista, che solo in un caso può sbagliare: quando al posto del farmaco richiesto ne dà un altro.