Pier Vittorio Tondelli muore alla vigilia dell’inflorescenza di quel nuovo paesaggio nazionale, inaspettatamente ridisegnato da Tangentopoli e Internet, nel quale anche il postmoderno (dopo i repentini rivolgimenti politici e culturali sottesi soprattutto all’inaridimento della vena ideologica) viene sottoposto al processo di revisione che il «Gruppo ‘93», nato dalle «Tesi di Lecce» dell’87, intenta col porre un problema nuovo: quello della scrittura nella insorgente realtà, nodo che, in una diversa grana, Tondelli ha già sciolto negli anni ’80.
Il progetto della «Terza ondata» volto a saldare, come nota Manacorda, «la tendenza dei contenuti ideologici della scrittura con la qualità delle innovazioni stilistiche e formali», figura già nell’orizzonte che Tondelli presagisce con la teorizzazione di uno statuto nel quale metalinguaggio, plurilinguismo, invenzione di un lessico sintatticamente deformato fino alla paratassi e, quanto al contenuto, riductio ad unum dei satellitari mondi giovanili (della musica, del cinema, del fumetto, dei murales), sono gli elementi sorgivi di un gusto contro la cui logica combinatoria si schierano i terzondisti, che, figli della neoavanguardia sì ma soprattutto dello sperimentalismo, sono cresciuti non più con l’ausilio di un linguaggio riformatore ma con la preoccupazione rivolta al quadrante della realtà contemporanea, quella che Tondelli chiama «fauna».
Presa questa posizione, gli ultimi fuochisti dell’istanza innovatrice recuperano la lezione del padre dello sperimentalismo, il Pasolini la cui dottrina non può non suggerire norme di estetica anche a Tondelli e che, per la sua azione di continuo rimando dalle ragioni del vissuto personale a quelle del tessuto sociale, può essere visto come l’anello di congiunzione tra Tondelli, che è l’interprete della sua generazione, e un altro omologo esegeta della società del suo tempo, l’Elio Vittorini che (come Tondelli e come Pasolini appunto) si trova a vivere in un’epoca nella quale l’idea di contemporaneità rimane ostaggio di una generazione che la risacca sociale si incarica, in tutti e tre i casi, di storicizzare all’indomani della loro morte.
La letteratura industriale di Vittorini (che «industriale» chiama tutta la letteratura contemporanea) ingaggia infatti presto i conti con l’impronosticabile generazione del Sessantotto di cui si fa cantore e latore Pasolini, la vicenda del quale però si chiude a ridosso dell’imprevedibile avvento della società edonistica che segna quegli anni ’80 dei quali Tondelli si candida a chroniqueur concependo un’idea anche di letteratura con cui il postmoderno anni ’90, aggiunti la riscoperta dell’intimismo psicologico e il ripudio dell’effimero (ma soprattutto un mezzo massmediatico come Internet, destinato a ridefinire il concetto di comunicazione e scompaginare l’immaginario giovanile), regolerà ogni debito.
Vittorini, Pasolini e Tondelli, scrittori lirici (consapevoli di alcuni portati mitopoietici: il senso della memoria, il valore della provincia compresa anche come campagna, l’alienazione dei mezzi di comunicazone che genera violenza e déracinément, l’idea di infanzia e di morte) e coscientemente impegnati a osservare la società dal lato soprattutto delle spinte giovanili, a motivo di una curiosa sorte comune entificano una contemporaneità che non ha domani credendola una condizione assoluta non circoscritta al loro solo presente e alla generazione cui fanno da testimoni ma non da mallevadori. «Io appartengo alla mia società e alla mia generazione» dice Vittorini. E Tondelli gli fa eco: «Sono uno dei pochi scrittori che porta avanti un discorso nutrito degli idoli culturali della propria generazione». Dove la rivendicazione di un’appartenenza, per la continua riproposta in entrambi di progetti di cambiamento, si ferma al di qua di una chiamata in corresponsabilità nei fallimenti e nelle disillusioni di generazioni che muoiono verdi.
Nella storia letteraria di Tondelli non si trovano tracce di Pasolini né tantomeno di Vittorini, ma la sua come quella dello scrittore friulano e per certi versi come quella dell’autore del Garofano rosso si configura alla stregua di una lunga «conversazione» sui «ragazzi di vita» di tre diverse Italie che riflette altrettante esperienze vagamente autobiografiche e certamente riferite alla personale sfera conoscitiva. E si tratta di esperienze che, per quanto riguarda Tondelli e Vittorini, disgelano una contiguità tale da involgere due vite parallele per quanto soprattutto riguarda (oltre che la censura per oscenità cui vanno incontro i loro due primi romanzi, scritti alla stessa età di poco più che ventenni ed entrambi dedicati alle lacerazioni, anche frutto di interiori ambiguità, che minano un mondo giovanile contagiato dai mali di una società estranea e pervasiva; e oltre ancora la fatica di scrivere che li accomuna, il senso della necessità della riscrittura e della correzione nonché l’attenzione alla pubblicazione, alla sistemazione delle edizioni, alle traduzioni, testimoniata dalle lettere a editori e amici; e oltre infine l’interesse per la cultura americana che porta Tondelli a eponomare i personaggi di Rimini) una comune visione della propria contemporaneità, senza però che né l’uno né l’altro se ne facciano sacerdoti, sicché mentre Tondelli dice «la mia generazione è così», a esprimere il senso di una minorità modaiola e superficiale, Vittorini avverte che «uno scrittore non può correggere in sé gli errori che sono della propria epoca». Talché non avrebbero praticato entrambi una insistita azione di operatori culturali se fossero stati paghi dei frutti della loro stagione.
Sotto questa luce, l’iniziativa promozionale di entrambi, tesa alla scoperta di nuovi scrittori, con la direzione di collane innovative di narrativa quali “Gettoni” e “Mouse to Mouse”, vale l’impegno profuso nella realizzazione di riviste e antologie letterarie, “Il Politecnico”, “Menabò”, “Panta”, “Under 25”), pensate come strumenti di rinnovamento ex professo della letteratura ma anche come campi di esercizio di giovani autori.
Ma altre sono le corrispondenze più significative e sorprendenti che corrono tra due autori artefici di una parabola creativa pressoché conforme, accomunati da una concezione della letteratura intesa come pasoliniana «officina» sperimentale, dove distillare le progr+essive acquisizioni provento della propria esperienza di osservatori. Usciti dal loro primo romanzo, entrambi lo disconoscono. Di Il garofano rosso Vittorini dice: «Non avrei potuto riconoscere come mia nessuna delle ragioni per le quali lo avevo scritto». E di Altri libertini Tondelli ammette: «Lo trovo molto ingenuo». Maturando e cambiando esperienza, entrambi scrivono quindi libri sempre diversi rinnovando la loro scrittura, quasi che, come confessa Vittorini, l’aspirazione non sia a scrivere tanti libri ma uno solo, definitivo, salvo riscrivere sempre perché «qualcosa che continua a mutare nella verità esige che si smetta mai di ricominciare a dirla». È quanto, in altri termini, sostiene Tondelli: «Ogni libro ha chiuso e rilanciato un grande periodo della mia vita».
Vittorini confessa di non potere più riscrivere Il garofano rosso se non nei modi di «quello che è diventato» dopo avere avuto il suo libro che è Conversazione in Sicilia. E, parallelamente, accingendosi a scrivere Camere separate, Tondelli è sicuro di potere dire, dopo le diversissime prove di Pao Pao e Rimini: «Il prossimo romanzo dovrà necessariamente riflettere un nuovo scatto della mia esperienza». Ma c’è di più. Sia Vittorini che Tondelli ravvisano l’importanza della musica nella scrittura e si provano in ripetuti esperimenti ed enunciazioni teoretiche. Il Vittorini che confessa di avere avuto «bisogno di dire una certa cosa che solo a dirla come dice le cose la musica si poteva arrischiare» non è che il Tondelli che quando stabilisce un precetto di poetica del tipo «Inventare sulla pagina il sound del linguaggio parlato» è in grado poi di concludere: «La musica mi ha sempre spinto a scrivere e cerco di realizzare una scrittura musicale quasi cantata».
È appunto il senso della sinfonia che porta sia l’uno che l’altro a concepire due romanzi circolari come Rimini e Le città del mondo. Tondelli è chiarissimo: «Rimini è il tentativo di costruire un romanzo polifonico in cui la pluralità delle voci (i personaggi) si sviluppi in una pluralità di punti di vista (le trame) in modo tale per cui il senso globale del romanzo si costruisce esclusivamente in uno spazio esterno a quello testuale, cioè nello spazio di lettura». Sorprendentemente lo stesso postulato lo possiamo adattare al calco delle Città del mondo, dove «il gioco dell’entrare e dell’uscire dalle trame con altri punti di vista narrativi» immaginato da Tondelli è lo stesso modello di romanzo corale che Vittorini persegue al fine della fissazione del mito dell’«assoluto» - parola chiave del Tondelli che dalla scrittura emotiva passa alla fenomenologia dell’abbandono - dentro il quale scoprire un altro dromo comune, quello del viaggio, tropo centrale in Vittorini non meno che in Tondelli, per il quale vale come «pellegrinaggio intorno alla propria coscienza», per dirla con Barilli, ma anche come ritorno, nel senso del recupero del mito dell’infanzia di cui proprio Vittorini è abbondantemente nutrito. «Viaggiare - scrive Tondelli in Un weekend postmoderno - è un modo per ricordarsi di un tempo della propria vita, di come si era. È proprio attraverso il viaggio che ogni generazione costruisce la propria memoria».
Alla fine la vicinanza tra Vittorini e Tondelli integra soprattutto la contiguità a dei temi che sono il ron ron di un secolo la cui cifra appare sempre più uniforme in costanza di un complesso di sentimenti che congiungono decenni e regioni e tendono a farsi risentimenti, trasferiti da uno stato di sofferenza personale a uno sociale, per tutti traducendosi in "male di vivere", un "astratto furore" vittoriniano che è anche scontento generazionale tondellano. Perché Vittorini e Tondelli, osservatori attentissimi della loroo età, non possono identificarsi con essa. Il Vittorini che dallo "scarico di coscienza" alla denuncia del "mondo offeso" fino all'atteggiamento antipifferaio e all'afasia altro non esercita che una resistenza alle correnti di moda proponendo mondi nuovi e inimmaginati, operando sempre in funzione di un programma e dedicando ai giovani un'attenzione - meglio: una premura - inusitata, è il dioscuro del Tondelli che degli anni Settanta, movimentisti e impegnati, si fa esecutore testamentario a favore del successivo decennio caricato di aspettative ma risultato alla fine di una panoplia di delusioni, remora della quale è la preconizzazione di un mondo ancora più nuovo: quegli anni Novanta di cui riesce però solo a intuire il senso di spiritualità che anticipa nel suo ardente Camere separate.
Due idealisti quindi, intenzionati a guardare nella sfera di cristallo; e che, seppure incapaci di divinarne gli esiti, appaiono fondamentali per capire il loro tempo. Del quale meno oggi sapremmo senza il loro apostolato ideologico: di due contriti e contrariati intellettuali che intendono la letteratura, quella più alta, come il più concreto e appassionato strumento di intervento civile e di affermazione della verità.
Presa questa posizione, gli ultimi fuochisti dell’istanza innovatrice recuperano la lezione del padre dello sperimentalismo, il Pasolini la cui dottrina non può non suggerire norme di estetica anche a Tondelli e che, per la sua azione di continuo rimando dalle ragioni del vissuto personale a quelle del tessuto sociale, può essere visto come l’anello di congiunzione tra Tondelli, che è l’interprete della sua generazione, e un altro omologo esegeta della società del suo tempo, l’Elio Vittorini che (come Tondelli e come Pasolini appunto) si trova a vivere in un’epoca nella quale l’idea di contemporaneità rimane ostaggio di una generazione che la risacca sociale si incarica, in tutti e tre i casi, di storicizzare all’indomani della loro morte.
La letteratura industriale di Vittorini (che «industriale» chiama tutta la letteratura contemporanea) ingaggia infatti presto i conti con l’impronosticabile generazione del Sessantotto di cui si fa cantore e latore Pasolini, la vicenda del quale però si chiude a ridosso dell’imprevedibile avvento della società edonistica che segna quegli anni ’80 dei quali Tondelli si candida a chroniqueur concependo un’idea anche di letteratura con cui il postmoderno anni ’90, aggiunti la riscoperta dell’intimismo psicologico e il ripudio dell’effimero (ma soprattutto un mezzo massmediatico come Internet, destinato a ridefinire il concetto di comunicazione e scompaginare l’immaginario giovanile), regolerà ogni debito.
Vittorini, Pasolini e Tondelli, scrittori lirici (consapevoli di alcuni portati mitopoietici: il senso della memoria, il valore della provincia compresa anche come campagna, l’alienazione dei mezzi di comunicazone che genera violenza e déracinément, l’idea di infanzia e di morte) e coscientemente impegnati a osservare la società dal lato soprattutto delle spinte giovanili, a motivo di una curiosa sorte comune entificano una contemporaneità che non ha domani credendola una condizione assoluta non circoscritta al loro solo presente e alla generazione cui fanno da testimoni ma non da mallevadori. «Io appartengo alla mia società e alla mia generazione» dice Vittorini. E Tondelli gli fa eco: «Sono uno dei pochi scrittori che porta avanti un discorso nutrito degli idoli culturali della propria generazione». Dove la rivendicazione di un’appartenenza, per la continua riproposta in entrambi di progetti di cambiamento, si ferma al di qua di una chiamata in corresponsabilità nei fallimenti e nelle disillusioni di generazioni che muoiono verdi.
Nella storia letteraria di Tondelli non si trovano tracce di Pasolini né tantomeno di Vittorini, ma la sua come quella dello scrittore friulano e per certi versi come quella dell’autore del Garofano rosso si configura alla stregua di una lunga «conversazione» sui «ragazzi di vita» di tre diverse Italie che riflette altrettante esperienze vagamente autobiografiche e certamente riferite alla personale sfera conoscitiva. E si tratta di esperienze che, per quanto riguarda Tondelli e Vittorini, disgelano una contiguità tale da involgere due vite parallele per quanto soprattutto riguarda (oltre che la censura per oscenità cui vanno incontro i loro due primi romanzi, scritti alla stessa età di poco più che ventenni ed entrambi dedicati alle lacerazioni, anche frutto di interiori ambiguità, che minano un mondo giovanile contagiato dai mali di una società estranea e pervasiva; e oltre ancora la fatica di scrivere che li accomuna, il senso della necessità della riscrittura e della correzione nonché l’attenzione alla pubblicazione, alla sistemazione delle edizioni, alle traduzioni, testimoniata dalle lettere a editori e amici; e oltre infine l’interesse per la cultura americana che porta Tondelli a eponomare i personaggi di Rimini) una comune visione della propria contemporaneità, senza però che né l’uno né l’altro se ne facciano sacerdoti, sicché mentre Tondelli dice «la mia generazione è così», a esprimere il senso di una minorità modaiola e superficiale, Vittorini avverte che «uno scrittore non può correggere in sé gli errori che sono della propria epoca». Talché non avrebbero praticato entrambi una insistita azione di operatori culturali se fossero stati paghi dei frutti della loro stagione.
Sotto questa luce, l’iniziativa promozionale di entrambi, tesa alla scoperta di nuovi scrittori, con la direzione di collane innovative di narrativa quali “Gettoni” e “Mouse to Mouse”, vale l’impegno profuso nella realizzazione di riviste e antologie letterarie, “Il Politecnico”, “Menabò”, “Panta”, “Under 25”), pensate come strumenti di rinnovamento ex professo della letteratura ma anche come campi di esercizio di giovani autori.
Ma altre sono le corrispondenze più significative e sorprendenti che corrono tra due autori artefici di una parabola creativa pressoché conforme, accomunati da una concezione della letteratura intesa come pasoliniana «officina» sperimentale, dove distillare le progr+essive acquisizioni provento della propria esperienza di osservatori. Usciti dal loro primo romanzo, entrambi lo disconoscono. Di Il garofano rosso Vittorini dice: «Non avrei potuto riconoscere come mia nessuna delle ragioni per le quali lo avevo scritto». E di Altri libertini Tondelli ammette: «Lo trovo molto ingenuo». Maturando e cambiando esperienza, entrambi scrivono quindi libri sempre diversi rinnovando la loro scrittura, quasi che, come confessa Vittorini, l’aspirazione non sia a scrivere tanti libri ma uno solo, definitivo, salvo riscrivere sempre perché «qualcosa che continua a mutare nella verità esige che si smetta mai di ricominciare a dirla». È quanto, in altri termini, sostiene Tondelli: «Ogni libro ha chiuso e rilanciato un grande periodo della mia vita».
Vittorini confessa di non potere più riscrivere Il garofano rosso se non nei modi di «quello che è diventato» dopo avere avuto il suo libro che è Conversazione in Sicilia. E, parallelamente, accingendosi a scrivere Camere separate, Tondelli è sicuro di potere dire, dopo le diversissime prove di Pao Pao e Rimini: «Il prossimo romanzo dovrà necessariamente riflettere un nuovo scatto della mia esperienza». Ma c’è di più. Sia Vittorini che Tondelli ravvisano l’importanza della musica nella scrittura e si provano in ripetuti esperimenti ed enunciazioni teoretiche. Il Vittorini che confessa di avere avuto «bisogno di dire una certa cosa che solo a dirla come dice le cose la musica si poteva arrischiare» non è che il Tondelli che quando stabilisce un precetto di poetica del tipo «Inventare sulla pagina il sound del linguaggio parlato» è in grado poi di concludere: «La musica mi ha sempre spinto a scrivere e cerco di realizzare una scrittura musicale quasi cantata».
È appunto il senso della sinfonia che porta sia l’uno che l’altro a concepire due romanzi circolari come Rimini e Le città del mondo. Tondelli è chiarissimo: «Rimini è il tentativo di costruire un romanzo polifonico in cui la pluralità delle voci (i personaggi) si sviluppi in una pluralità di punti di vista (le trame) in modo tale per cui il senso globale del romanzo si costruisce esclusivamente in uno spazio esterno a quello testuale, cioè nello spazio di lettura». Sorprendentemente lo stesso postulato lo possiamo adattare al calco delle Città del mondo, dove «il gioco dell’entrare e dell’uscire dalle trame con altri punti di vista narrativi» immaginato da Tondelli è lo stesso modello di romanzo corale che Vittorini persegue al fine della fissazione del mito dell’«assoluto» - parola chiave del Tondelli che dalla scrittura emotiva passa alla fenomenologia dell’abbandono - dentro il quale scoprire un altro dromo comune, quello del viaggio, tropo centrale in Vittorini non meno che in Tondelli, per il quale vale come «pellegrinaggio intorno alla propria coscienza», per dirla con Barilli, ma anche come ritorno, nel senso del recupero del mito dell’infanzia di cui proprio Vittorini è abbondantemente nutrito. «Viaggiare - scrive Tondelli in Un weekend postmoderno - è un modo per ricordarsi di un tempo della propria vita, di come si era. È proprio attraverso il viaggio che ogni generazione costruisce la propria memoria».
Alla fine la vicinanza tra Vittorini e Tondelli integra soprattutto la contiguità a dei temi che sono il ron ron di un secolo la cui cifra appare sempre più uniforme in costanza di un complesso di sentimenti che congiungono decenni e regioni e tendono a farsi risentimenti, trasferiti da uno stato di sofferenza personale a uno sociale, per tutti traducendosi in "male di vivere", un "astratto furore" vittoriniano che è anche scontento generazionale tondellano. Perché Vittorini e Tondelli, osservatori attentissimi della loroo età, non possono identificarsi con essa. Il Vittorini che dallo "scarico di coscienza" alla denuncia del "mondo offeso" fino all'atteggiamento antipifferaio e all'afasia altro non esercita che una resistenza alle correnti di moda proponendo mondi nuovi e inimmaginati, operando sempre in funzione di un programma e dedicando ai giovani un'attenzione - meglio: una premura - inusitata, è il dioscuro del Tondelli che degli anni Settanta, movimentisti e impegnati, si fa esecutore testamentario a favore del successivo decennio caricato di aspettative ma risultato alla fine di una panoplia di delusioni, remora della quale è la preconizzazione di un mondo ancora più nuovo: quegli anni Novanta di cui riesce però solo a intuire il senso di spiritualità che anticipa nel suo ardente Camere separate.
Due idealisti quindi, intenzionati a guardare nella sfera di cristallo; e che, seppure incapaci di divinarne gli esiti, appaiono fondamentali per capire il loro tempo. Del quale meno oggi sapremmo senza il loro apostolato ideologico: di due contriti e contrariati intellettuali che intendono la letteratura, quella più alta, come il più concreto e appassionato strumento di intervento civile e di affermazione della verità.