sabato 27 settembre 2014

La capanna brucia o è di legno?


Nel 1862 Hans Christian Andersen si trova a Barcellona e assiste all’alluvione della Rambla causata da un torrente. Non pensa a quello che vede ma a quanto vorrebbe vedere, cioè “a quale racconto potrebbe venir fuori dall’azione di un piccolo torrente di montagna, normalmente entro i limiti di un modesto fiumiciattolo”. Tempo dopo Jakobson chiarisce quanto è successo ad Andersen con un esperimento in una classe di bambini ai quali chiede di reagire, per associazione di idee, alla parola “capanna”: c’è chi dice che è di legno e chi dice che brucia. Da questo esperimento Jakobson e Barthes traggono elementi per distinguere il saggio dal romanzo, la metafora dalla metonimia: la prima figura risponde alla domanda “cosa significa”; la seconda alla domanda “che succede dopo”. Se diciamo capanna e pensiamo al legno siamo nel campo della metanimia, quindi del saggio, rimanendo nello stesso rapporto semantico; se invece pensiamo a un incendio ci troviamo nel campo della metafora, cioè, del racconto: immaginiamo quanto avviene dopo, spostandoci in un’area semantica contigua e compiendo una traslazione di senso. Andersen è un narratore ed è quindi naturale che pensi, di fronte a una alluvione, al “perciò”. Uno scienziato si preoccuperebbe del “perché”.
Molti anni dopo Calvino definisce la “molteplicità del possibile”: un autore avanza nella scrittura allontanando da sé il maggior numero delle storie possibili in modo da isolarne una soltanto. Che sarà quella più realistica (la capanna brucia) o quella meno realistica (la capanna scompare) in forza dalla sua immaginazione. Che è dunque, per dirla con Wilde, figlia della realtà entrata in rotta con la madre. Questo stesso procedimento, la “molteplicità del possibile”, lo ritroviamo dal lato del lettore. Ce lo dice Eco: quando il lettore comincia a leggere un romanzo non sa se la storia è vera o no e quanto possa esserlo; lo scopre man mano che procede nella lettura, riducendo perciò la molteplicità del possibile. 
La realtà in cui viviamo è però molteplice, nel senso che noi viviamo le nostre vicende una dopo l’altra come fanno i personaggi dei romanzi. Ha dunque ragione George Steiner quando dice che ogni forma d’arte (metafora) è un atto critico (metonimia)? La risposta ci viene dal primo romanzo moderno: Don Chisciotte diventa personaggio immaginario perché scopre di essere protagonista di una storia che gli viene narrata. Si crede vero ma poi si scopre inventato. E cosa fa dopo ogni sconfitta? Legge romanzi, cioè sceglie di mettersi nella condizione di chiedersi cosa viene dopo e non cosa gli è successo e soprattutto perché è successo. Se si ponesse domande del genere non leggerebbe romanzi ma trattati.
La metafora ci insegna a conoscere mondi nuovi, contigui alla nostra immaginazione, a viaggiare, anche con la sola mente. Maria Corti un giorno imprecò sul fatto che le erano scappate tutte le metafore per cui, facendo lei della scrittura una questione di stile, non sapeva più non tanto cosa scrivere ma come scrivere. La metonimia ci aiuta invece ad esplorare la nostra contingenza, a non uscire da essa e a smontarla per guardarci dentro: quello che fa il filologo o lo scienziato. Che è quanto invece non fa il narratore, che non bada a come è fatta la strada sulla quale poggia i piedi ma guarda avanti per vedere quella che lo aspetta.
Si tratta di due modi antitetici di intendere e vivere la vita, gli stessi che Walter Benjamin identifica con l'agricoltore sedentario e il mercante navigatore: il primo non si muove da un luogo di cui conserva la memoria, il secondo narra le meraviglie di mondi sconosciuti. Qual è preferibile dei due modelli di vita e quindi delle due figure retoriche? Meglio fermarsi a domandarsi il perché di ogni fenomeno umano o naturale, come gli uomini primitivi, oppure andare avanti esplorando il mondo e fare nuove conoscenze? La differenza integra quella tra forma e vita trovata da Pirandello. Secondo il quale la vita tende a cristallizzarsi, a fermarsi a prendere una forma, la quale però è sempre spinta a riprendere vita e muoversi come ci capita di fronte a una scultura o un quadro che vorremmo rianimare. 
Ma mentre la forma ci dà sicurezza nella realtà, legandoci a un presente certo e tangibile, la vita ci espone ad ogni sorpresa. Eppure, pur sapendo che tra fare e non fare è meglio non fare perché solo rimanendo inermi non mutiamo la nostra condizione, preferiamo agire, andare avanti, affrontando le incognite del futuro al solo scopo di migliorare la nostra circostanza. Per questo preferiamo il romanzo al saggio, la metafora alla metonimia: perché ci immedesimiamo nelle vicende di quanti, personaggi di fantasia ma nostri avatar, vanno avanti per prepararci la strada. Don Chisciotte diventa personaggio da romanzo quando scopre di essere protagonista di una storia che gli stanno raccontando.