giovedì 29 dicembre 2016

Le visioni di Sinopoli alle Eolie


Una notte di equinozio, primo giorno di primavera caro ad Artemide, al maestro Giuseppe Sinopoli, veneziano di padre messinese, succede un prodigio che egli riporta sotto quella stessa data in un testo intitolato “L’albero di Ippolito”, ora raccolto in I racconti dell’isola (Marsilio), dove l’io narrante appare l’eco eterna dell’arcipelago alla quale l’autore non presta che la sua voce.
Camminando a passo lento tra ulivi, pini, palme e mimose attorno alla sua casa di Lipari in costruzione, alla ricerca di “ideazioni” su come dev’essere, dopo che Apollo è tramontato lasciando la terra calda delle sue spore e Artemide si staglia diaccia e franta sopra Vulcano, Sinopoli scorge una fulgida fanciulla che, seguita da due ninfe e da un uomo bello e nobile, siede ai piedi di un ulivo contorto dove poco dopo giunge un vecchio che, scambiando la fiaccola con quella in mano alla donna, ne pronuncia il nome, Parthenos, avendone in risposta il proprio: Virbius. Dopodiché scompaiono tutti, lasciando al maestro la sensazione attonita di aver assistito al ricongiungimento di Artemide e Ippolito quando tutto è però compiuto ormai da millenni, perché Ippolito è morto per volontà di Afrodite, l’eterna rivale olimpica di Artemide, mandato a schiantarsi con la sua biga contro un ulivo nel quale si è per sempre compenetrato e ritorto. 
Allora Sinopoli si guarda attorno e vede che l’intera contrada del Cappero, dove il destino ha voluto che edificasse la sua casa sul vastissimo orizzonte del mare prospiciente, pullula di ulivi saraceni. Chi può averli piantati nel tempo in cui tutto cominciò se non Aristaios, il re-pastore venuto anche a Lipari a insegnare l’agricoltura e diventato simbolo della rinascita della natura, che non muore mai, al contrario dell’uomo? Li ha piantati a schiera, nella perfezione geometrica in cui ancora oggi si presentano gli ulivi secolari, e a immagine di Ippolito, benché dimentico che è stata proprio Artemide a trasformare il figlio Atteone in cervo destinandolo alla morte. 
Alla visione di una notte di primavera, Sinopoli ha chiaro il senso da dare alla sua casa, che intitola ad Aristaios (come è anche chiamato il museo che a Roma espone la sua collezione archeologica) perché incarna il primato della vita sulla morte. Nello stesso tempo si rende conto che sta costruendo non una casa quanto uno spazio sacro, dedicato non solo ad Artemide ma anche ad Afrodite. Si accorge infatti che il suo podere è costituito da tre parti distinte: oltre alla silva, dove la natura è rimasta selvaggia, scopre coltivazioni e giardini, l’hortus, ipostasi di Afrodite, e poi terrazzamenti trasformati in lucus, lo spazio umano, rispecchiamento di Artemide. Capisce anche che contrada Diana, sotto l’acropoli e sede della più grande necropoli eoliana, è così chiamata per un ancestrale culto liparitano rivolto alla dea della caccia: a segnare il passaggio dalla silva inculta al luogo di abitazione dell’uomo la cui attività venatoria diviene la sua prima forma di cultura.
Ma già prima di quella notte, stavolta una mattina, l’autore ha avuto una precedente visione sottesa al senso di una genesi. «Tutto - scrive in “I corvi di Apollo” - nell’arcano arcipelago del vento, sembrava rispondere a un antico richiamo». Il richiamo dei corvi posati sui muri a secco che sostenevano i terrazzamenti con gli ulivi, «il mare che «allagava gole sconfinate e caverne angoscianti», «gigantesche montagne di roccia sommerse dalle acque»: tutto sembrava contribuire a pensare che l’anima e l’intelletto, la fede e la ragione, fossero la stessa cosa, ponendo la terra al centro dell’universo. Ma Sinopoli matura presto ben altra concezione.
Nella sua cosmogonia vede al centro di tutto l’isola, «unica verità tangibile», e fa di Lipari anche la terra dove Ulisse approda per morirci perché i suoi ulivi, a volersi immedesimare in essi come Ippolito, godono di un «carattere fondamentale che pone la natura dell’albero al di sopra di quella umana» giacché stabiliscono «l’apparente superamento da parte del mondo vegetale del problema della morte». Conformarsi alla natura come fa l’Ulisse di Sinopoli significa dunque accogliere una dottrina della salvezza fondata sul logos visto come ragione, ovvero nei modi della cultura classica che sono antitetici a quelli della Rivelazione cristiana fondati sulla promessa della resurrezione. L’assimilazione nella natura, entro un progetto cosmico che antepone l’intelletto all’anima, mette d’accordo silva e hortus, Artemide e Afrodite, è il motivo che spinge Ulisse a morire nella terra di Meligunìs-Lipàra stendendosi tra le pietre soffici di pomice, donde l’autore può così chiudere “La nave di Ulisse”, il terzo racconto: «La morte è questo non tempo, questo non spazio dove l’essere spogliato della coscienza perde ogni identità particolare per divenire il tutto, l’unità non più divisibile».
La visione materiale, stoica, che Sinopoli vagheggia circa la questione ontologica risponde agli interessi archeologici coltivati per tutta la vita e vissuti nella seconda dimora di Lipari al pari di elementi di una filosofia naturalistica sperimentata a contatto con il mondo reale. Il direttore d’orchestra scomparso improvvisamente a 55 anni nel 2001 comprò casa al Cappero non per farne un otium ma un situm, cioè «il luogo privilegiato, il centro da cui si irradiano, indietro nel tempo, innumerevoli fili, per millenni». Capì dal suo speculum in aenigmate che la vita lo aveva voluto musicista, archeologo e filosofo perché al Cappero ne facesse una sintesi lasciando, da poeta lucreziano e pensatore aureliano, testimonianza in questi racconti pubblicati dal figlio Giovanni. Racconti che si offrono a questo punto come riflessioni di uno speculatore “fisico”, dotato di una mente greco-latina, che dall’osservatorio di Lipari scruta il cosmo semplicemente con gli occhi puntati sulla sua immediata circostanza - il mare, gli alberi, il cielo - maneggiandola come una partitura dove il tutto armonico è scandito dalle note della natura abbinate alle suggestioni della mitologia. Il bosco che diventa giardino ma anche orto, seppure resti in parte selva, non è alla fine che il modello ispiratore di Casa Aristaios, volutamente concepita secondo un intento di recupero dei valori di sacro e profano, di irrazionale e razionale, che vogliono mettere ordine nel caos del cosmo. Quella sera di inizio primavera è allora molto probabile che il maestro avesse in una mano una bacchetta di direttore d’orchestra e nell’altra una bacchetta magica mentre vedeva rapito le fiaccole di Parthenos e Virbius.