venerdì 2 dicembre 2016

Avola, 48 anni fa i "fatti" che furono una jacquerie



I muri a secco che costeggiano ancora oggi la 115 da Cassibile ad Avola servirono da sanpietrini, ma ben più pesanti, il pomeriggio del 2 dicembre di 48 anni fa in mano ai braccianti di Avola che affrontarono la polizia.
Il bilancio fu di due morti e sei feriti tra i dimostranti e di 51 feriti tra la polizia. A morire furono due persone del tutto estranee al fronte bracciantile in lotta: un ragazzo di 25 anni di Rosolini, Angelo Sigona, che da Cassibile era diretto a Frigintini dove lo aspettava la madre ammalata, e un coltivatore diretto di 47, Giuseppe Scibilia, che pensava di raggiungere il suo podere poco dopo contrada Chiusa di Carlo, la zona fuori Avola divenuta celebre per essere stata teatro di quelli che sono ricordati come “i fatti di Avola” e che non riguardarono solo Avola ma tutta la provincia di Siracusa.
La polizia usò bombe lacrimogene, che il vento le indirizzò addosso dopo il rovesciamento di fronte degli schieramenti, e pistole e fucili i cui bossoli esplosi e raccolti pesarono alla fine oltre due chili, mentre i dimostranti usarono pietre e qualche fucile di caccia.
Fu una battaglia accanita e violenta, durata quasi un’ora. La polizia aveva ricevuto l’ordine di non fare ricorso alle armi (e per questo il questore fu la stessa sera esonerato). I dimostranti lo seppero e si fecero spavaldi. Quando sentirono i tre squilli di tromba che annunciavano la carica, cominciarono a lanciare sassi sbriciolando i muri a secco. Alle prime bombe lacrimogene lasciarono poi la strada e si dispersero nella campagna finendo per accerchiare le forze di polizia e ingaggiando decine di corpo a corpo. Gli agenti furono sentiti gridare “Ci ammazzano! Ci ammazzano tutti”, galvanizzando così i lavoratori in sciopero che si accanirono ancora di più provocando la violazione della consegna di non sparare e la rabbiosa reazione dei poliziotti che aprirono il fuoco, prima in aria e poi ad altezza d’uomo.
La polizia sarebbe stata comunque sopraffatta se un reparto di cinquanta uomini che era sulla strada per Lentini dov’era esplosa un’altra manifestazione non avesse raccolto l’allarme via radio lanciato da un vicequestore e non fosse piombato a dare manforte capovolgendo le sorti dello scontro.
Il reparto celere di Catania accerchiato, di stanza a Siracusa, cento uomini circa distribuiti in otto “cellulari”, era diretto a Noto dove un posto di blocco era stato rimosso con la forza dai carabinieri, uno dei dimostranti era stato fermato e gli altri avevano forzato il cancello della caserma per liberarlo. Ma sulla strada per Noto, cinque chilometri prima di Avola, la polizia incappò in un primo blocco che superò senza difficoltà per poi fermarsi davanti al secondo molto più consistente. All’accendersi dello scontro, i dimostranti del primo blocco tornarono indietro colsero alle spalle il reparto celere che fu bersaglio di un attacco concentrico di fronte al quale l’unico rimedio possibile fu l’uso delle armi.
Blocchi stradali, sassaiole, reparti di polizia e carabinieri schierati. Molti anni dopo le stesse scene si sarebbero viste pressoché sulle stesse strade, artefici i nipotini dei braccianti e cioè i Forconi. Nel 2011, ancora in dicembre, la protesta siciliana delle classi più deboli si sarebbe rivolta contro lo Stato. A capo si sarebbe messo proprio un avolese, Mariano Ferro, l’ultimo alfiere di una coscienza irriducibile nella rivendicazione dei propri diritti.
Ad Avola si ebbe la battaglia più cruenta, ma incidenti furono registrati a Carlentini, Lentini, Augusta, Floridia, Canicattini, Cassibile, Pachino. Mezza provincia si infiammò e scese per strada alla proclamazione dello sciopero da parte dei sindacati dei braccianti dopo che il 29 novembre si erano interrotte le trattative con le associazioni degli agrari per il rinnovo del contratto provinciale. Alla proclamazione di undici giorni di sciopero i braccianti insorgono, fomentati dai sindacati. La polizia appresta rinforzi a Siracusa, pronta a intervenire. Quando lo fa la situazione è ormai nelle mani dei dimostranti che hanno istituito numerosi blocchi stradali usando anche calce viva cosparsa a terra per impedire la circolazione. La mattina del 2 dicembre, in un clima tesissimo, il presidente della Regione Carollo chiede alle parti datoriali di anticipare di un giorno la ripresa delle trattative. I sindacati vogliono tornare al tavolo forti del predominio acquisito sul campo e non ordinano la cessazione della protesta, com’è usuale in questi casi. La situazione precipita e quando a Chiusa di Carlo i braccianti si trovano di fronte alla polizia si sentono incoraggiati a dare battaglia.
Il tavolo delle trattative si riunisce solo a mezzanotte, dopo che ci sono stati i morti e i feriti sono in ospedale, qualcuno anche grave. La riunione si prolunga ininterrottamente fino all’indomani alle 15,30, l’ora in cui giorno 2 sono scoppiati gli incidenti di Chiusa. L’esito è condizionato dalle polemiche divampate in tutta Italia e rimbalzate in sede governativa. Confagricoltura, Coldiretti e Cia si trovano costrette ad accettare tutte le richieste, pressate dal prefetto: abolizione delle zone salariali con la distinzione tra zona A e B della provincia a causa della quale i braccinti di Avola percerpiscono 3110 lire al giorno mentre quelli di Lentini e Francofonte 3480; riduzione dell’orario di lavoro da otto a sette ore; aumento dei minimi fino al 12% nelle aree con i redditi più bassi; istituzione delle commissioni paritetiche per il controllo delle qualifiche con in più, vantaggio strappato grazie ai morti, libertà delle commissioni di entrare nelle aziende del solo Siracusano per verificare il rispetto dell’accordo.
Alle 17 viene dato l’annuncio della firma del contratto e dappertutto cessano i disordini. I blocchi vengono rimossi, i negozi riaprono, lo sciopero viene revocato (a risultato ottenuto) e ad Avola si sgonfia il corteo che nella mattinata ha sfilato minacciosamente, in totale assenza di poliziotti e persino di vigili urbani, con l’apporto anche degli studenti mobilitati in segno di solidarietà. Della rivolta resta ad Avola una via periferica, intitolata a Giuseppe Scibilia, il martire che voleva andare nella sua terra.