giovedì 10 novembre 2016

Perché il Ponte non s'ha da fare


Articolo uscito il 26 ottobre 2016 su la Repubblica-Palermo

Il progetto di ponte sullo Stretto evoca il sogno vagheggiato dagli indolenti perdigiorno di Brancati: decisi a dare ai loro “anni perduti” un contenuto edificante, realizzano a Natàca una torre che viene poi spazzata dal vento, metafora di un velleitarismo megalomane ed effimero nonché retaggio di una storica incapacità tutta siciliana di individuare gli obiettivi concreti e fattibili.
Il Ponte, pur solo come progetto, è già la torre di oggi, giacché i siciliani soffrono di una ipertrofia dell’io collettivo che, facendo da contrappunto al sicilianismo più vittimistico e lacrimevole, li induce in un gioco di opposizioni a mutarsi in fiero strumento o accondiscendente teatro di iniziative grandissime e insieme minuscole. In questa antitesi entrano pure la genesi dell’isola che ai giganti primitivi accomuna gli elefanti nani, la sua geografia che conta grandi città e piccolissimi villaggi, così come la sua antropologia che alla prima e più grande organizzazione mafiosa oppone la popolazione con la più bassa condizione socio-economica.
Ma ci sono anche iniziative chimeriche e di poco giovamento entro un rapporto analogo di contrasti. Il raddoppio della Catania-Ragusa, per esempio, che correrà pressoché parallela alla futura autostrada Rosolini-Ragusa; i poli universitari di Siracusa, Ragusa, Modica e Noto, gran parte già morti o in agonia; gli svincoli a ogni Comune sulla Catania-Siracusa e sulla Palermo-Trapani; i dieci porti concorrenziali da Messina a Licata. Mentre alla proliferazione dei doppioni fa da rovescio il depauperamento delle strutture più necessarie: termovalorizzatori, impianti di compostaggio, discariche; scuole e ospedali moderni; stadi e teatri nuovi; servizi turistici attrezzati.
Il Ponte sullo Stretto arriverebbe allora come prezioso regalo domestico fatto a una famiglia senzatetto. Accrescerebbe il trasporto gommato (e quindi le vittime della strada) in una rete viaria che su entrambe le coste è insufficiente e soprattutto insicura: anche quando si tratta di autostrade, come nel caso della Messina-Catania dove la frana di Letojanni non è stata un anno dopo ancora rimossa. Affosserebbe il trasporto via mare di merci e passeggeri che in un’isola dovrebbe essere invece il vettore principale. Non accelererebbe del resto il transito, perché le attese sarebbero forse più lunghe e i pedaggi più costosi. Ma soprattutto sconvolgerebbe il patrimonio paesaggistico, mitologico e letterario, che sullo Stretto è ricchissimo e fragilissimo.
Sul piano naturalistico, il colosso di cemento influenzerebbe le “reme”, montante e calante di Jonio e Tirreno, che al poeta Bartolo Cattafi apparivano «fasci alterni di energie che le due terre si scambiano»; e con esse sarebbe colpita la biodiversità del fondo marino che vanta varietà presenti solo nell’Atlantico, quel fondo marino cosparso di relitti per il quale Vincenzo Consolo leggeva in superficie «infinite storie, la storia che è passata per quelle acque, per quella geografia minuta». Né più lo Stretto metterebbe i brividi come oggi al primo «mare grosso», come lo chiamano i messinesi, i brividi che fino ai Borboni consigliavano di indossare un berretto rosso di scongiuro per il tempo della traversata. Al bando i brividi, meglio il progresso, si potrebbe obiettare. D’accordo. 
Ma come sarà più possibile, mutando profondamente l’aspetto dello Stretto, immaginare il gigante Encelado, legato sotto l’isola, con una mano in corrispondenza della Punta del Faro? O Colapesce reggere la più vacillante delle tre colonne sulle quali poggia la Sicilia? E vedere nel verghiano «fiume turchino» che è lo Stretto la sabbiosa Cariddi «allungare le braccia bianche verso Scilla rocciosa e altera», trasformate che fossero quelle braccia in due caselli autostradali irti nei luoghi di Odisseo e Enea e sovrastante il peloritano sulla leggendaria città sommersa di Risa? E chi mai potrà più godere della visione della fata Morgana quando la lontananza tra le due coste sarà resa inalterabile da un gigantesco distanziometro? Chi osserverà più con occhi rapiti le feluche lanciate alla caccia dei pescispada, semmai ne resteranno in sembianza degli antichi Mirmidoni trasformati da Tetide in pesci-guerrieri a difesa dello Stretto? O vedrà ‘Ndria Cambria alle prese con l’orcaferone nel centro di quello che D’Annunzio chiamò «il più bel chilometro d’Italia»? Il Ponte cancellerà un immenso patrimonio e con esso anche i suoi personaggi, da Cecilio Metello a re Ruggero, da Carlo Magno a Re Artù fino a Silvestro di Vittorini, per fare della bellezza dello Stretto un istmo di calcestruzzo e della Sicilia una nuova terraferma. 
Nell’Ottocento si pensò - altra «torre» siciliana - a un tunnel sotterraneo, che fu accantonato perché l’alto costo non sarebbe mai stato coperto dal traffico, ma fu osservato che il traffico non sarebbe aumentato oltre un certo limite senza affrontare l’alto costo del tunnel. Oggi il problema non è cambiato, essendo essenzialmente rimasto quello delle risorse economiche da reperire. Ma quanto al traffico è possibile prevedere che non crescerà perché i turisti preferiranno continuare a servirsi del ferryboat solo per ammirare da lontano il Ponte. Che sarà senza dubbio un’altra bellezza anch’essa mozzafiato. 
Sicché la questione non è soltanto se fare o meno il Ponte quanto anche di scegliere tra due tipi di grande bellezza: quella immateriale e letteraria e l’altra monumentale e reale, nella supposizione che se si facesse qualcosa per promuovere la prima non ci sarebbe più spazio né voglia per la seconda, cosicché del ponte non si parlerebbe più, come nessuno costruirebbe un palazzo su un famoso sito archeologico. Ma questo sottende una scelta culturale in uno Stato e in una Regione che hanno ministeri e assessorati ai Beni culturali ma non alla Cultura.