martedì 14 giugno 2016

Mafia e serie Tv, resta sempre la finzione



La Sicilia che le serie Tv vanno proponendo su Raiuno e Canale 5 (concentrate, nell’incremento registrato di recente, particolarmente sulla mafia: dopo “Boris Giuliano” è atteso “Il romanzo del commissario”) ci viene restituita non nella realtà più documentata quanto entro una rappresentazione irrelata ed elusiva, integrando due modelli, la commedia e la tragedia, che o divertono oppure impressionano.
Che idea se ne fanno allora i telespettatori d’Oltrestretto? Il gusto nazionale è quello ormai stabilito dal successo del “Commissario Montalbano”, serie sostenuta da due registri felicemente combinati: quello comico dei suoi personaggi - che bene si attaglia a una Vigàta vista come una Tombstone ritrovo di pistoleri comuni anziché una Chicago popolata di boss mafiosi - e quello della scelta meticolosa di location che del Ragusano esaltano le bellezze architettoniche e paesaggistiche. 

Mettendo a tesoro il solo aspetto ironico, la serie in lavorazione “La mafia uccide solo d’estate” ne mutua proprio la propensione alla levità, con un dippiù di insistito intento dissacratorio della mafia che recupera retaggi alla Ciprì e Maresco, Roberta La Torre ed Emma Dante. Sull’altro lato, “Romanzo siciliano” prova invece a trasferire sul Siracusano dov’è ambientato l’attrazione del pubblico per la vicina area iblea, nel presupposto che il patrimonio paesaggistico e artistico aretuseo valga altrettanto interesse, ma anziché valersi anche del fondo ilare e disincantato di Montalbano adotta il tono tragico e severo di “Squadra antimafia”, serie ambientata a Palermo: così dimostrando che la mafia va rappresentata solo nei suoi luoghi perché a traslocarla può essere resa soltanto demistificandola e svilendola. La prova è venuta proprio da “Squadra antimafia”, altra produzione Taodue: quando molto disinvoltamente il set è stato trasferito a Catania l’audience si è dimezzata, perché l’immaginario nazionale non conosce che Palermo quale scenario di vicende genuinamente mafiose.
Così, indulgendo a cogliere di Siracusa gli scorci più pittoreschi non meno che attingere a indicazioni stradali e cognomi di tutta autenticità, la serie con Bentivoglio e la Pandolfi sembra piuttosto avere per teatro Palermo. Per di più lascia che gli interpreti parlino nel loro dialetto, tanto che il capomafia Buscemi ha l’accento messinese di Trischitta, altri catanese e altri ancora palermitano. Il regista, l’astigiano Lucio Pellegrini, non si è preoccupato dell’accento degli attori ed ha sbagliato: non diversamente dal varesino Alberto Sironi, regista del “Montalbano”, che ha consentito parlate non iblee. 
Queste operazioni di ricollocazione e straniamento, che a un produttore settentrionale possono sembrare indolori nella visione comune di una Sicilia uniforme e analogica, sono forse la causa dello spaesamento che adducono le serie Tv successive a “La Piovra” e “Il capo dei capi”, opere perfette per unità, adesione al dato storico e rispetto del principio di realtà. E’ perciò possibile che nella prospettiva invalente la Tv non tenga oggi conto del fatto che non esiste una sola Sicilia, bufalinianamente essendo almeno cento, per modo che i bassi ascolti di “Romanzo siciliano” siano da imputare al tradimento che lo sceneggiato fa non solo della città ma anche della Sicilia. Ragioni di produzione, è vero. Ma anche nel caso di Angelo Musco, chiamato a interpretare “Liolà” nel dialetto agrigentino di Pirandello, valsero le stesse ragioni di produzione e di uniformità di recitazione, superate tuttavia con la concessione del drammaturgo a lasciare parlare solo etneo. Ad ogni modo fare di Siracusa la capitale della mafia appare un totale infingimento della realtà oltre che una gratuita licenza dello sceneggiato.
Mentre dunque esperisce sforzi per raccontare dal vero la Sicilia, pure liberandosi finalmente della tentazione di rimestare caduchi stereotipi sicilianisti, la docu-fiction televisiva in genere - mentre si addice a levare alla geografia quanto concede piuttosto alla storia - nulla fa sul piano della verosimiglianza dell’ambientazione. Alla fine, tanta lodevole attenzione prestata con scrupolo alle guerre di mafia, ai blocchi contrapposti, al gioco dei poteri forti e alle collusioni politiche, se non trova rispondenza nella trasposizione televisiva e finzionale, induce il telespettatore soprattutto siciliano a sospendere la credulità e fare come gli spettatori di Montelepre che, alla proiezione in anteprima del film “Salvatore Giuliano” di Rosi, risero davanti alle troppe fughe dalla verità. Quel che allora si rischia è di mancare l’obiettivo semplicemente oltrepassandolo: “La mafia uccide solo d’estate” eccedendo in grottesco e “Romanzo siciliano” esorbitando in dissimulazione.


Articolo pubblicato il 12 giugno 2016 su la Repubblica di Palermo