mercoledì 8 marzo 2017

La categoria siciliana dei truffatori

La famosa scena della truffa in "Tototruffa 62"

Orazio Genco, il ladro amico del commissario Montalbano, piace anche a Camilleri che infatti ha ammesso: «I truffatori che truffano i miliardari a me fanno simpatia». Molta simpatia, dal momento che ricorda «un libro di Len Deighton dedicato, “con deferente ammirazione”, a un italiano che vendette il Colosseo a un miliardario americano».
L’ammirazione dell’autore inglese sarebbe stata forse maggiore se il venditore fosse stato siciliano, perché la truffa (il reato per il quale la legge richiede l’ingegno del raggiro e dell’artificio: la capacità quindi di prendere in giro e dissimulare) sottende in Sicilia il senso della beffa più che dell’inganno. La presa in giro vale più della presa in trappola. Non solo: qui la truffa è portatrice di giustizia sociale e riparatrice di torti, anche quando a commetterla è uno sciocco come Giufà, uno stregone come il catanese Eliodoro o un mago come il palermitano Cagliostro, la triade fondativa della truffa alla siciliana. 
E allora “babbeo”, come don Blasco dei Viceré chiama Ferdinando che si è fatto truffare addirittura dalla madre, può essere non solo la vittima ma pure l’artefice. Il quale truffa anche senza saperlo né volerlo: sicché Diego, nella novella “E due!” di Pirandello, reduce con gli amici da un tiro a un riccone, spennato al gioco, barando, può così dire candidamente: «Là risero tutti, giudici, presidente; finanche i carabinieri; ma è la verità. Noi rubavamo senza saperlo, o meglio, sapendolo e credendo di scherzare. Non ci pareva una truffa». 
La truffa come scherzo può dunque mutare un reato odioso in un gioco di abilità, ma anche delle parti. La rappresentazione della variegata accezione di truffatore più conforme a questo modello si ritrova nella vicenda di don Silvestro e donna Rosolina de I Malavoglia. Lei gli ha prestato 25 onze e ne pretende la restituzione con le dita negli occhi: «Si dice pure che siete un truffatore! Io non li rubo i denari, come certa gente!». Senonché li ha rubati davvero al fratello vicario i soldi e perciò non può andare dal giudice, cosa che sa tutta Trezza; epperò la moglie dello speziale mormora che “tutto il paese sa che don Silvestro ha truffato 25 onze a donna Rosolina ma nessuno va a dirglielo in faccia». Dal canto suo don Silvestro si schermisce difendendo padron ‘Ntoni per i soldi dei lupini che deve a zio Crocifisso persuadendolo che «i Malavoglia non potevano dirsi truffatori se volevano pagare il debito». Come intende fare anche lui, del resto. Ma a parole e dentro un giro di variazioni e sfumature su cosa si debba intendere per truffa.
È proprio la parola il cuore della truffa. Che in Sicilia si fonde con la gestualità e la mimica in un misto vertiginoso di espressività e commedia. Il professore Buscaino de Gli anni perduti di Brancati, una volta indebitatosi per “l’affare della torre panoramica” costruita a Natàca e aver appreso che è illegale, confessa agli amici la verità: «Già sorridevo al pensiero di lasciare tra le mani dei miei creditori un Buscaino pazzo, un fantoccio che li avrebbe pagati tutti, ma con grosse risate!». 
La truffa mascherata di insania è anche quella inscenata dall’avvocato Di Blasi de Il Consiglio d’Egitto di Sciascia quando, della falsificazione compiuta con l’abate Vella per truffare il viceregno, ammette: «Mi rendo conto che era una pazzia» e il giudice conviene «D’accordo: era una pazzia». Ma può essere mistificazione: del tipo sostenuto per esempio da Joe Morelli, il falso talent scout di L’uomo delle stelle di Tornatore che gira la Sicilia per illudere, con gesti vistosi e parole seducenti, sciocchi e narcisi. Truffandoli bellamente; oppure del tipo del falsario di Caltagirone (titolo del romanzo di Maria Attanasio), quel Paolo Ciulla, contraffattore di monete con il titolo di “artista”. 
Nella specie del plagio mentale, lo spirito truffaldino è connaturato dentro la cultura siciliana sin dai primordi. Ermes, il dio greco dei truffatori e dei ladri, figura inopinatamente in uno dei Santoni di Palazzolo Acreide e, sotto la forma del caduceo, il suo attributo, compare nello stemma del Comune di Ragusa. Il culto fu molto sentito anche perché abbinato a quello di Demetra, l’ancestrale dea Ibla. Divenuto Mercurio, ebbe ancora più fortuna, tanto che la città di Tindari provò a opporsi alla richiesta di Verre di avere la sua statua. Ermes oggi rivive nelle decine di casi di truffa, a diversi gradi sopraffina, che si registrano in Sicilia. 
In ambito letterario ha per ultimo ispirato il romanzo di Gianluca Barbera, siciliano di origine, che per Aliberti ha pubblicato La truffa come una delle belle arti, romanzo picaresco (finalista al Premio Chianti) che narra le avventure fantasiose di una famiglia catanese, i Lo Piccolo, votati di generazione in generazione all’esercizio del mestiere più creativo del mondo, quello di fare soldi con la propria astuzia e con l’ingenuità altrui. 
Esilaranti le pagine che raccontano il viaggio di Ferdinando II deciso a vedere di persona, partendo da Napoli per arrivare ad Acireale, l’esposizione di una sirena delle Galapagos mummificata di cui tutto il Regno delle due Sicilie parla al pari di un fenomeno naturalistico unico al mondo: sirena naturalmente falsa ma ideale per gabbare i creduloni paganti, compreso il re. Che, meravigliato quanto scettico alla vista della sirena, quando esprime la volontà di comprarla per portarla a palazzo, apprende di un misterioso incendio nel quale la creatura-bestia è rimasta distrutta. I Lo Piccolo escogiteranno altre truffe, girando il mondo e trasmettendosi in eredità il genio della turlupinatura fino ad arrivare ai giorni nostri e alla bolla dei fondi derivati: esercitando tenacemente la “nobile arte” del raggiro intesa a realizzare il precetto di Diderot che l’io narrante del romanzo indica nel dovere di ogni uomo di rendersi felice. Anche se fuori legge.


Articolo pubblicato il 9 marzo 2017 su la Repubblica di Palermo