domenica 2 aprile 2017

La mutilazione di Rabito e del suo "Terra matta"

La tomba di Vincenzo Rabito a Chiaramonte Gulfi

Il 6 marzo 2007 Einaudi pubblicava Terra matta di Vincenzo Rabito, morto nel 1981 a 82 anni a Ragusa. Rabito era di Chiaramonte e per due anni, dal ‘68 al ‘70, aveva scritto la storia della sua vita riempiendo con una macchina Olivetti del figlio Giovanni 1027 pagine fittissime, con spaziatura zero e giustezza pari alla larghezza del foglio.
Nel 1970 Giovanni trova il dattiloscritto e per poterlo leggere lo porta con sé a Bologna dove studia. Non lo restituisce né il padre glielo richiede o ne parla. Quel che Rabito fa è tornare alla macchina per scrivere e ricominciare daccapo stendendo una nuova versione, più lunga e aggiornata al 1981, concepita alla fine in forma di diario, versione che finora è rimasta inedita. 
Per 37 anni Giovanni tiene la prima versione finché la presenta a un premio per epistolari e diari dove l’opera si aggiudica il primo premio. Finisce a Einaudi che incarica la palermitana Elena Stancanelli di compiere un editing cui la scrittrice si dedica servendosi del lavoro filologico che sul testo ha già compiuto Luca Ricci.
L’edizione Einaudi conta 411 pagine e costituisce una selezione del dattiloscritto, che è stato sottoposto, quanto allo stile, a profonde modifiche relative alla punteggiatura. Rabito non ha usato che la sola interpunzione del punto e virgola quasi dopo ogni parola, sconoscendo grammatica, ortografia e sintassi, ma mettendo a tesoro le nozioni elementari di lettura e scrittura apprese dopo i 35 anni quando consegue la licenza elementare. Einaudi non si è limitata ad accorciare abbondantemente il testo, né a ordinare la punteggiatura, ma ha disposto i capitoli dando loro un titolo e deciso che il libro dovesse intitolarsi “Terra matta”: che non si è capito a cosa mai intendesse riferirsi, giacché la terra in questione non è quella di Chiaramonte, visto che le vicende si svolgono in mezza Europa, e che comunque di qualcosa che faccia pensare a impazzimenti non c’e proprio niente, a meno di pensare che matto - aggettivo del tutto sconosciuto al dialetto borghese che avrebbe preferito semmai pazzo - fosse non la terra ma l’autore. 
Rabito aveva scelto un altro titolo, “Fontanazza”, che meglio avrebbe indicato lo spirito del libro, metafora di una sorgente di vita tribolata (per ciò il dispregiativo), ma la casa editrice torinese ha pensato di tradirlo anche sotto questo aspetto. Ha fatto di più. Ha volutamente ignorato l’esistenza di una versione aggiornata e più corretta (dovuta all’acquisizione di una maggiore abilità dell’autore nello scrivere e nell’uso della Olivetti) chiudendo la sua edizione con l’avvertenza che il dattiloscritto si interrompe nell’agosto del 1970 e che «durante gli ultimi anni della sua vita, Rabito non poité scrivere più niente». Falso.
Brutta operazione quella compiuta dalla Einaudi dieci anni fa. A differenza di quanto proclamato - la scelta di un editing leggero per conservare l’autenticità dell’autore - Rabito è stato invece mutilato proprio nella sua genuinità: la vena sorgiva di spontaneità e naturalezza, di cui il profluvio originario di pagine era dimostrazione, è stata vista dai curatori come ripetitiva e sovrabbondante oltre che prova di limitazione creativa, quando piuttosto si esprimeva nelle forme di uno jocyano flusso di coscienza - o se si vuole di uno sveviano monologo interiore - che non rispondeva che al più invalente modello letterario del Novecento. Per risparmiare sui costi (non credendo quindi fino in fondo al valore dell’opera) Einaudi preferì accogliere la proposta dei curatori che non videro né Joyce né Svevo e soprattutto non si accorsero che quanto Rabito aveva messo per iscritto era la trasposizione di una narrazione orale la quale, nella sua autenticità, si serve proprio di ripetizioni e ridondanze, di prolessi e metalessi proprie del “cuntu”. E cuntista era Rabito, sempre pronto a intrattenere amici al circolo ragusano e a raccontare ai figli piccoli brani della sua vita traboccante di avventure.
Quel che hanno fatto i curatori può essere accostato allo spettacolo che venga offerto a un pubblico intenzionato a vedere le belve feroci cui vengono mostate però fiere ammaestrate. L’opera di Rabito che andava pubblicata era la seconda versione, com’è normale per un autore che rimetta mano a quanto ha scritto. Ma se proprio doveva andare in libreria la prima stesura, non poteva non essere lasciata nella sua forma originale, compresi i punti e virgola ad ogni parola, magari apportando un apparato esplicativo maggiore e più attento, ma senza toccare neppure una parola del testo. Averlo accorciato, ripulito, “reso più leggibile”, con un intervento che non si capisce fin dove esattamente sia arrivato, ha significato mortificarlo. Moltissimi episodi raccontati da Rabito sono stati eliminati perché ritenuti di poca importanza; altri - per ammissione della stessa Santangelo - sono stati accorpati perché ricorsivi, dappertutto le lacune sono state sostituite da frasi in corsivo dei curatori e molti nomi propri cambiati con pseudonimi. 
Accettando questo criterio fondato sull’arbitrarietà, si ricava che se altri fossero stati i curatori avremmo allora avuto un libro ancora diverso. Non si è capito che, a differenza di quanto si è detto in questi dieci anni, Rabito non ha avuto nulla di straordinario, nemmeno nella capacità affabulatoria, rispetto alle migliaia di vecchi saggi che ancora oggi in tutta la Sicilia sono altrettanto in grado di raccontare con lo stesso risultato storie da tenere avvinto un uditorio, rispondendo a una tradizione orale che non si vale solo dei “contastorie” ma anche di una retorica tutta siciliana per la rappresentazione icastica, la gestualità e la teatralità. 
Rabito, diversamente dagli altri reduci dell’Italia del suo tempo, questo ha fatto: ha voluto trasporre in un testo scritto quanto semplicemente avrebbe detto a un pubblico disposto ad ascoltarlo, traducendo le parole senza alcuna cura per ciò che si dice e ciò che si scrive. Averlo interpolato e ravanato è stato dunque come interromperlo ogni cinque minuti per dargli indicazioni su cosa dire e come dirlo.
Sicché, quando gli editori avvicinati dal figlio Giovanni dicevano che si trattava di un libro impubblicabile non mentivano: nel senso che “Fontanazza” va inteso come un copione da leggere a voce alta in compagnia.