sabato 21 novembre 2020

Sciascia, una voce che si propaga nel tempo



Articolo uscito su Libero il 20 novembre 2020

I tre puntini di sospensione che in Il giorno della civetta servono a definire “incredibile” la mafia (insieme con la Sicilia, l’Italia e persino Livia), quasi che non possa trovarsi altro modo se non dislocandola camusianamente nell’assurdo, rivelano per intero lo Sciascia multanime, anguillare, insieme coscienza critica e spirito escapista, intellettuale eretico e nello stesso tempo eremitico, pronto a contraddire e disposto a contraddirsi, incredibile decisamente anche lui perché permanentemente sospeso tra crinali opposti, non ultima la sua natura illuministica tentata sempre da quella romantica. 
Persino quei tre punti di titubanza e un aggettivo così generico sono valsi a supporre un doppio Sciascia: uno che reputa la mafia non credibile e un altro che la trova invece talmente elusiva e straordinaria da giustificare chi la neghi. Pur spinto per dottrina a schematizzare il mondo con l’uso di un linguaggio in forma di cesello, Sciascia si fermò incredulo e incredibilmente sull’orlo di un’esitazione che indusse il capitano Bellodi a dire: «La mafia è molto complicata da spiegare, è… incredibile, ecco». Con un avverbio posto nei modi di una risoluzione che ha fatto dello scrittore il primo nemico della mafia e il suo primo fiancheggiatore. 
Tuttavia, trentuno anni dopo la scomparsa, l’ondivago, ambivalente e ineffabile Sciascia continua a parlarci e giudicarci, sebbene non sia stato che testimone del suo tempo e patrocinatore pressoché della sola Sicilia. Un caso unico. Sciascia parla a un’epoca che non è più la sua, nel paradosso però che noi ne sentiamo la voce ancora acuta e necessaria. Una voce che viene dal fondo della sensibilità nazionale, nella natura di un grillo parlante ammonitore e ammaliatore. Come prima di lui Vittorini e pochi altri letterati del Novecento (Moravia, Eco, Pasolini), seppe dal territorio irriso della cultura parlare alla pari al coté rivale della politica, di cui pure indossò un provvisorio e scomodo usbergo, finché in casi che rivolse in affaires come fu per Moro e Majorana si elevò al di sopra di essa assurgendo a notista della controstoria italiana e censore del carattere nazionale. Da trent’anni si aspetta in Italia un letterato che non sia un chierico e operi da intellettuale senza il piffero, legittimato a raccogliere l’eredità di un contraddittore laico educato al più irriducibile rigore morale. 
Celebrato e disprezzato in vita con pari forza e foga, Sciascia si mantiene dopo morto sulla cresta dei tempi a motivo forse di una versatilità che lo rende molteplice. Per una irripetibile congiunzione anagrafica, l’anniversario della scomparsa coincide nello scarto di qualche settimana con due centenari: della propria nascita (che un programma di eventi nazionali si prepara a commemorare) e di quella di un confrére, il Gesualdo Bufalino che tenacemente provò a convertirlo alla religio del decadentismo, vedendo in lui non il philosophe ma il conteur che «lontano dal tapparsi a doppia mandata nel castello di cristallo della pura ragione, volentieri consente a sporgersi sul popolo d’ombre gementi che alle soglie di quel castello s’accalcano». 
In realtà i temi romantici della malattia, del tempo, dell’amore, del sogno, della memoria e della morte, che mutano l’ethos in pathos e fanno di un realista legato all’hic et nunc un cantore rivolto all’uomo e non al mondo bene li vide Bufalino nello Sciascia delle poesie giovanili, di Le favole della dittatura, La Sicilia, il suo cuore, Il teatro della memoria, Candido un sogno fatto in Sicilia e immortalati infine in un epitaffio, “Ce ne ricorderemo, di questo pianeta”, che sembra un atto di resipiscenza. Ma più che Chateaubriand c’è l’amatissimo Manzoni nello statuto sciasciano fondato sul precetto del romanzo come “misto di storia e invenzione”, tale da autorizzarlo ad essere éngagé come ermetico, moralista e simbolista, classicista e novecentista, in sostanza plurimo e pluralista. Anche il suo principale biografo, Claude Ambroise, scorse in lui uno stimolo crescente a coltivare quella che in Bufalino è l’“isolitudine”, un montaigniano impulso alla retraite, alla «cessazione della partecipazione attiva alla vita pubblica» e per questa via un interesse progressivo verso autori più della visione che della vista quali Savinio e Borges. Eppure Sciascia rimane l’intellettuale per eccellenza, il maître à penser di tre decenni, il polemista attivo e caustico che fa politica facendo letteratura. Un uomo en travesti che può piacere oggi quanto e forse più di ieri.