(foto Luca Brunetti) |
Articolo uscito su Libero il 17 febbraio 2023
Ciatuzzu di Catena Fiorello Galeano (Rizzoli) è il romanzo di una triplice perdita: della madre che muore, del padre emigrato e della Sicilia. Ma anche di una conquista di emancipazione: quella di un’anagrafe europea. Nuzzo, diminutivo di Sebastiano, dalla madre chiamato col vezzeggiativo “Ciatuzzu” (piccolo fiato, anima mia), frequenta ogni giorno il cimitero nella convinzione che la madre possa apparirgli realmente, ma trascura la scuola sicché il padre minatore a Charleroi decide di averlo con sé: Nuzzo in Belgio si addice allora all’idea di poter rivedere la madre con “gli occhi del cuore”, gli stessi con i quali guarderà alla Sicilia e al suo paese, chiamato Leto, trasposizione di Letojanni, il comune jonico di tutti i Fiorello. Il romanzo avrebbe in realtà potuto intitolarsi proprio “Gli occhi del cuore” se non fosse stato pensato a specchio di Picciridda, libro uscito sei anni fa e omologo a questo nel tessuto narrativo e nello spirito inteso a costituire una cosmogonia di Leto.
«Sarebbe stato perfetto “Gli occhi del cuore” – dice l’autrice a Libero – ma ci tenevo che il titolo fosse di una sola parola, come Picciridda, perché quando in Sicilia dici “picciriddu” evochi il mondo che voglio raccontare nella prospettiva di una trilogia sulle infanzie difficili, non vissute, rimaste in sospeso, a ridosso di quelle degli adulti che sono dovuti crescere troppo in fretta. In verità mentre scrivevo Picciridda non avevo pensato a un ulteriore approfondimento del tema dell’infanzia non vissuta. Ma dopo mi sono resa conto che avevo raccontato solo una parte della verità, ovvero quella dei bambini che vivevano l’emigrazione degli adulti. Picciridda la vive in maniera passiva, nel senso che sono i suoi genitori a partire, ad agire, mentre lei rimane, preda di una condizione di attesa, sia essa di una telefonata o di una lettera o del ritorno dei suoi genitori in Sicilia per le vacanze. Ciatuzzu invece è protagonista di un’emigrazione attiva, perché parte, raggiunge il padre in Belgio, per diventare un emigrante anche lui».
Ci sarà quindi un terzo titolo nel quale Lucia e Nuzzo, cioè Picciridda e Ciatuzzu, avranno magari una storia che coroni un comune sogno infantile?
Un terzo titolo ci sarà quasi sicuramente, ma non immagino Lucia e Nuzzo come figure primarie. Quel ruolo sarà di un altro bambino o di un’altra bambina che non ha potuto vivere serenamente la propria infanzia. Penso a tutti i bambini che, nelle varie parti del mondo, sono costretti a guardare negli occhi gli orrori della guerra e della miseria. E vorrei che anche i ragazzi sapessero che non è scontato mangiare, avere una famiglia, un tetto sopra la testa. Non so ancora quando scriverò il terzo capitolo. Ciatuzzu ha richiesto cinque anni, giacché lo prendevo, scrivevo dei mesi, poi lo lasciavo sedimentare un po’ e nel frattempo facevo lunghe ricerche per conoscere la realtà che i minatori italiani emigrati in Belgio si trovavano ad affrontare.
Perché sente così fortemente un tema oggi storicizzato qual è quello dell’emigrazione?
Perché ce ne siamo occupati poco e mi sembra, per assurdo, che alla nostra emigrazione non sia stato mai riconosciuto il valore e il significato che merita, anche solo per le ricadute sulla nostra società. Di medaglie, agli emigranti italiani, nessuno si è sentito in dovere di metterne sul petto. Perché? Perché erano considerati dei poveretti, degli ignoranti senza mezzi, disprezzati tanto da non essere riconosciuti come artefici della nostra Storia. Io ritengo invece che sia esattamente il contrario. Quei lavoratori, quegli uomini e donne che sono andati via senza voltarsi indietro, scendendo nell’arena e combattendo a mani nude ogni giorno, privandosi di tutto, anche di un pezzo di pane (come mi hanno raccontato le tante persone che ho intervistato per preparare il romanzo e che mi hanno detto appunto come risparmiassero anche sul pezzo di pane per conservarlo per l’indomani), sono stati poi quelli che hanno riportato in Italia i soldi guadagnati altrove. Quelli che hanno permesso ai figli di studiare e di diventare ciò che loro non avevano potuto essere. Desideravo dare una voce a queste persone, e nel mio piccolo, riconoscere il loro valore, e ringraziarli per essere stati un tassello importante della nostra crescita.
Quella di Nuzzo è una storia di formazione che integra non un nostos ma la scelta di un altrove che inverte una secolare tradizione. Nuzzo è il solo emigrato a non mettere soldi da parte per farsi la casa nel paese dove un giorno tornare. È europeo, come anche Lucia.
Non solo Lucia e Nuzzo sono fieramente e profondamente europei, ma nutrono un sentimento di riconoscenza verso i Paesi di arrivo. Quando Lucia, dopo il trauma della violenza, raggiunge i suoi genitori in Germania, odia quel Paese, dove ci sono più nein che ya per la sua famiglia, dove le umiliazioni da parte dei tedeschi sono maggiori delle gentilezze ricevute. Poi però, da adulta, acquisisce un’altra consapevolezza e dice una cosa importante, che sì, la Sicilia era bellissima, ma ha negato un lavoro e una dignità a suo padre. Lo stesso fa Nuzzo, che quando arriva in Belgio osserva subito quel cielo color marroncino, beige, grigio, e si sente in un posto brutto e triste, in mezzo a baracche inospitali. Ma poi studia, si laurea in medicina, si appassiona alle lotte sindacali. Alla fine, riconosce al Belgio, che all’epoca era dotato di politiche sociali all’avanguardia, quanto ha fatto per lui.