Aldo Grasso del “Corriere della sera” è un guru della televisione italiana che valuta e censura i conduttori senza esserlo stato se non una volta, per tenere negli anni Novanta su Raidue, nell’epoca d’oro di Pickwich” di Baricco, una trasmissione, “Tuttilibri”, di cui non è rimasta alcuna traccia nemmeno nella memoria storica, perché parlare di scrittori non è come disquisire di presentatori, trattandosi di un altro mestiere. Condusse però in quegli anni su Radiodue un programma intitolato “A video spento” per sciorinare (facendo un gran torto alla radio, la parente nobile) anche allora di Tv, un mondo che ritiene di essere il solo a conoscere: tanto da avere elaborato una personale teoresi, secondo la quale la televisione ubbidisce a un solo credo, l’abitudine, per cui si spiegherebbe perché format come “Affari tuoi” continuino ad essere seguiti anche con Stefano De Martino del quale non ha dunque una grande opinione. Resta da capire le ragioni per cui programmi storici come “Domenica in”, “Striscia la notizia”, “Porta a porta”, “I soliti ignoti” rinominato “Chissà chi è” o “Che tempo che fa” perdono ascolti nonostante la loro consolidata longevità e il fatto che riconducano a nomi non solo popolarissimi ma appunto “abituali”.
Ma se Di Martino (che peraltro sta facendo dimenticare Amadeus) è un bersaglio mobile, Massimo Giletti è l’obiettivo sempre fisso nel mirino di Grasso che lo ha puntato ringhiando. A ragione quando gli contestò la pietosa e risibile sceneggiata inscenata in Ucraina, da una landa sperduta e tranquilla della quale Giletti condusse una puntata di “Non è l’arena” (facendo un po’ come tutti gli archormen nostrani che amano rendersi protagonisti di eventi eccezionali presenziandoli, ma a debita distanza e a pericolo cessato: Costanzo a Capaci, Vespa a L’Aquila) e altrettanto a ragione recentemente per la conduzione di “La Tv fa 70”, quando Giletti ha forse capito che un conto è condurre talk show e un altro presentare serate. A torto, in parte, invece lo ha adesso aggredito per “Lo stato delle cose”.
In un articolo pubblicato sul Corriere nella sua rubrica a forma di scanno inquisitoriale, Grasso - in un italiano dove “a schiena dritta” significa il contrario che integerrimi e dove si legge che “l’ego smisurato del generale si annoiava alle parole di Vannacci” (sic!) – rimprovera a Giletti di non aver “squadernato la scaletta e impostato la trasmissione in diretta” alla notizia della concomitante incursione delle forze israeliane in territorio libanese, ciò che avrebbe rivelato in lui un “giornalista di vaglia”. Evidentemente Grasso ha pensato che si trattasse di un avvenimento della massima importanza, non badando però che quel lunedì sera non si è avuta alcuna “edizione straordinaria” e che il suo stesso giornale uscì l’indomani con un titolo di taglio medio in prima pagina per nulla allarmante: “Invasione limitata in Libano”.
In realtà Giletti, giornalista nel quale la modestia dei mezzi professionali e della proprietà di linguaggio è inversamente proporzionale allo smisurato grado di narcisismo che lo possiede, andava ringraziato con sollievo per non essersi lanciato in una tirata sulla crisi in Medio Oriente, magari con il piglio e la sicumera di cui ha dato mostra in occasione delle sue rovinose (per lui) trasmissioni sulla mafia. Invece il pontefice massimo Grasso ha ridotto il Massimo delle proverbiali intemerate (che la migliore prova di sé la diede in “Scherzi a parte”, quando dimostrò onestà e coraggio civile, rifiutandosi di appropriarsi di merce rubata) allo stato nel quale, come ha detto in un successivo video sul sito del Corriere, lo vede da sempre pari a un bluff.
Secondo Grasso, nell’“unica intervista interessante” della serata, Giletti avrebbe dovuto chiedere a Michael Cohen, il nemico giurato di Trump, perché tanti americani votano “un simile mascalzone”. Giletti avrebbe dovuto usare proprio queste parole e ignorare che quel “mascalzone” è stato, per volontà della maggioranza degli americani, presidente degli Usa e potrebbe tornare ad esserlo? Davvero Grasso pensa che la televisione di Stato debba fare questo? Neppure l’incontenibile Saviano si presterebbe a tanto.
Certo, stigmatizzare la scelta di porre “Lo stato delle cose” sotto l’egida di Rai cultura è stato un atto dovuto da parte di Grasso, che ha additato una contraddizione nei termini, visti i poveri modi espressivi e la misera portata delle argomentazioni di Giletti, il quale ama più apparire che essere, farsi ammirare in aplomb che essere ammirato per dottrina, bellocciare più che disputare. Ed è anche vero che il programma non ha niente di nuovo, ripetendo modelli propri del campionario di Giletti come di trasmissioni dello stesso genere che indulgono senza eccezioni al sensazionalismo, alla ricerca della rivelazione in diretta, allo scoop misto allo show.
La pochezza di Giletti è allora la stessa di una televisione che, schiava dei dati di ascolto, deve dare spettacolo per primeggiare. Celebre la preoccupazione di Giuliano Ferrara che a un ospite, un attimo prima della diretta de “L’Istruttoria”, chiede se sa parlare in televisione, intendendo se sa gridare, questionare, litigare e dare agli altri sulla voce. Giletti, che non a caso ha scelto l’arena come suo pabulum ideale, perché è di scontri in diretta che si nutre, di civitoti in lizza e mani in aria, è insomma figlio di questa televisione che Grasso si ostina a notomizzare imperterrito come se fosse possibile averne una diversa. Il peggio che la televisione rappresenta è oggi da Giletti interpretato al meglio delle possibilità del settore. Del resto quali sono questi conduttori che eccellono in qualche scibile?
Nel video sul sito Grasso accusa Giletti di fare interviste di “una noia mortale”. E si chiede: “Come fa a reggere un’intera serata con dei moduli che si ripetono oramai da tempo?”. Una domanda che però vale per quasi tutti gli attuali talk in circolazione: con piena ragione di un veterano del campo, Michele Santoro, che da anni va ripetendo come questo tipo di giornalismo-entertainment sia ormai morto. Grasso dice che il programma non va, senza però indicare quali sono i talk che vanno bene in termini di audience, se qualsiasi film ottiene sempre più gradimento. E non va, secondo lui, per il modo soprattutto in cui Giletti fa le interviste. Che nulla hanno di diverso da quelle di Gruber, Formigli e Floris, sempre pronti a interrompere gli ospiti, a dire la loro, a fare domande senza aspettare le risposte. Di suo Giletti ci mette una smodata ipertrofia dell’io che lo fa assurgere a salomonico giudice e inappellabile arbitro e a posare a piacione furbo. A Grasso non piace proprio e con disprezzo lo ha bollato a 62 anni “ragazzo”, ammettendo nel suo articolo di essere stato lunedì sera più volte sul punto di cambiare canale. Epperò i suoi colleghi della redazione online del Corriere hanno apprezzato eccome il programma, tanto da aver postato il battibecco tra Vannacci e Pascale divampato sotto la regia di un Giletti che solo quando la tensione in studio cresce si riconosce nel direttore d’orchestra in taccia di conduttore. Stecca sempre, senonché il pubblico televisivo non ama l’armonia ma il rumore.
Se vuole fare qualcosa per il bene della televisione, Grasso dica ai suoi colleghi del Corriere di smetterla di postare video di gente che litiga in qualche talk show. E faccia come i critici letterari hanno oggi imparato: un libro che non piace non si stronca ma si ignora. Sbagliatissimo, ma così non si crea sporco. La televisione, dirà, ha grandi numeri che non possono essere taciuti. Vero, ma non perché il porno gode di una diffusione ben maggiore della televisione, c’è qualcuno messo a pontificare sull’andamento. I fenomeni di massa non hanno mai migliorato l’uomo.
Articolo uscito su Mow